Storia dei partiti italiani

Alle origini del Movimento Sociale Italiano

di Laura Bordoni / pubblicato il 6 Novembre 2014
copertina msi almirante de marsanich

La destra nel secondo dopoguerra

Nel secondo dopoguerra, a causa delle pregiudiziali anti-fascista e anti-monarchica, la componente di destra era esclusa dal sistema politico italiano. Tuttavia, benché marginalizzata, essa era tutt’altro che inerte: tre soggetti politici, riconducibili in maniera diversa all’area della destra, cercavano di intercettare i voti di una vasta opinione pubblica conservatrice.

simbolo del Movimento Sociale Italiano

il simbolo del Movimento Sociale Italiano

Il primo era il Fronte dell’Uomo Qualunque, un partito fondato a Roma dopo la Liberazione per opera del commediografo Guglielmo Giannini. L’UQ riuscì abilmente a cogliere le antiche, radicate diffidenze nei confronti dello stato e le presenti ostilità verso il ceto politico emergente, e si fece interprete del comune sentire degli italiani, propugnando un programma di ritorno alla quotidianità. Punto centrale della sua protesta era l’ostilità nei confronti delle organizzazioni di partito, che nasceva da più motivi: il pregiudizio sfavorevole alla politica, in contrasto con il primato di quest’ultima sostenuto dai partiti di massa, e la rivendicazione di un primato della società civile rispetto alla società politica. In questo senso, il movimento di Giannini diede voce all’uomo qualunque, all’uomo della strada, opponendo all’idea di «democrazia aristocratica» quella di «democrazia plebea1». Si trattava, in sostanza, di un «impasto, certo informe ed irrisolto, di giudizi, e soprattutto di pregiudizi e di luoghi comuni, di cui si nutre l’italiano medio del tempo2», che garantì per un breve periodo al movimento la possibilità di porsi come principale interlocutore di un’opinione pubblica refrattaria al nuovo corso tracciato dall’antifascismo.

Nel voto per la Costituente del giugno ’46 il movimento di Giannini si assicurò il 5,3% dei suffragi; quattro mesi dopo, alle elezioni amministrative di novembre, ottenne dei risultati ancora migliori, riscuotendo un successo pieno nelle principali città del Sud3.

Tuttavia, il partito di Giannini non durò a lungo: la critica corrosiva dei partiti dell’arco costituzionale ne causò l’emarginazione e l’assoluta indeterminatezza della sua proposta politica non gli consentì di dotarsi di un’identità stabile e tanto meno di accreditarsi come un’affidabile forza di governo; per questi motivi, alle prime elezioni politiche del’48 il Fronte dell’Uomo qualunque ottenne un modesto 3,6%.

Dopo la scomparsa del Fronte di Giannini a dare espressione, almeno parziale alla vasta opinione pubblica conservatrice, accanto al Movimento Sociale Italiano (MSI) in via di costituzione, c’era il Partito Nazionale Monarchico (PNM). Anche i monarchici, come i qualunquisti, si opposero al nuovo indirizzo proposto dai partiti antifascisti e cercarono di ricettare quei dieci milioni e più di voti espressi a favore della monarchia il 2 giugno ’46.

Anche il PNM, però, non ebbe grande fortuna: alle elezioni per la Costituente del ’46 e successivamente in quelle politiche del ’48 ottenne uno scarsissimo 2,8%.

In sostanza, esso non riuscì ad avanzare una proposta politica che andasse oltre il rigetto della forma repubblicana dello stato e, sia sotto la guida di Alfredo Covelli, sia sotto quella di Achille Lauro, rimase «un semplice espediente politico messo in campo dal vecchio notabilato meridionale […] per contrastare l’insidiosa e alla lunga irresistibile ascesa della nuova classe politica legata ai partiti di massa4».

Il terzo soggetto politico a muoversi nell’area della destra era il neofascismo. I neofascisti, diversamente dai qualunquisti e dai monarchici, ritenevano che la tradizione politica fascista dovesse essere riproposta nell’Italia repubblicana. Questo aspetto è di centrale importanza per comprendere il progetto di questo gruppo politico: se il fascismo era sorto, e poi si era imposto, come una scommessa sul futuro, il neofascismo si configurava sin dalle prime mosse come nostalgia di un passato che non può tornare.

Nel primo anno dopo la guerra, per i neofascisti il problema principale fu la sopravvivenza; l’alternativa era costretta tra due sole opzioni: o costituire qualche gruppo clandestino – il più importante era rappresentato dai Fasci di Azione Rivoluzionaria (FAR) – o adottare un travestimento di comodo in attesa di tempi più sicuri. In questo senso, L’Uomo Qualunque servì da porto sicuro in cui poterono mimetizzarsi i neofascisti; esso fu un «utile ombrello sotto il quale ripararsi5». Tuttavia, questa convivenza mascherata non poté durare a lungo; troppe erano le divergenze, per esempio, sulla concezione dello stato: il qualunquismo, con lo slogan dello «stato amministrativo» proponeva una versione dello «stato minimo»; tutt’altra cosa era lo «stato etico», socializzatore e corporativo caro ai fascisti. La tesi di Giannini, cioè la visione dello Stato come entità puramente amministrativa, comportava una scarsissima importanza del concetto di nazione, essenziale, invece, nel pensiero di tutti i neofascisti, a qualunque corrente essi appartenessero. Il primato della nazione (insieme con la mitizzazione di Mussolini e del regime) costituiva, infatti, «il vero e unico elemento di unione delle varie componenti del neofascismo6» (fascisti di sinistra, moderati intransigenti, conservatori, filocattolici o rivoluzionari). Dunque, il cammino insieme fu breve: non appena Togliatti concesse l’amnistia, all’indomani del referendum istituzionale, i neofascisti presero le distanze dall’UQ e si adoperarono per il reingresso in politica. Meno di sei mesi dopo avrebbe visto la luce il Movimento Sociale Italiano.

Dall’amnistia alla costituzione del MSI

Agli inizi del 1946 quasi tutti i partiti politici trattarono con i fascisti per assicurarsi il loro voto nel referendum istituzionale: socialisti, democristiani, monarchici, qualunquisti, il gruppo dell’Unione democratica nazionale, comunisti. Ai fascisti, d’altro canto, non interessava se il 2 giugno avrebbe vinto la monarchia o la repubblica, ma importava che l’una o l’altra, vincendo, avrebbero compreso «la necessità di concedere un’amnistia7». Da qui la decisione di Pino Romualdi di adottare una linea di assoluto legalitarismo, garantendo ai monarchici e ai repubblicani il non intervento dei fascisti in cambio della promessa dell’amnistia. Concessa da Togliatti, quest’ultima fu «l’atto finale che chiuse ogni ipotesi sanzionatoria ed epurativa nei confronti dei fascisti8».

Secondo Parlato, i contatti tra fascisti ed esponenti delle forze di governo costituirono «un’implicita ammissione del problema politico e psicologico rappresentato dagli ex fascisti nel clima di ricostruzione democratica» e rappresentarono di fatto una «legittimazione dei neofascisti quali attori politici, una sorta di benestare per un prossimo, legale loro reinserimento nella politica attiva9».

La fondazione del MSI fu preceduta e preparata da una serie di iniziative e di incontri, a cui parteciparono tutti coloro che, richiamandosi variamente al neofascismo, propugnavano una soluzione unitaria. Nella seconda metà del 1946 il neofascismo propriamente detto si suddivideva in quattro filoni: il Movimento italiano femminile «Fede e famiglia» della principessa Pignatelli; il Partito nazionale fusionista di Pietro Marengo, il fondatore del primo giornale neofascista, «Manifesto»; il gruppo di «Rivolta ideale» di Giovanni Tonelli, che diede vita al Fronte dell’Italiano nel giugno 1946; il «Senato» di Romualdi, che diede prima vita ai Fasci di azione rivoluzionaria, nell’autunno del 1946, quindi al MSI, insieme con Tonelli e il suo giornale nel dicembre successivo10.

Il gruppo direttivo politico del neofascismo si riuniva presso lo studio di Arturo Michelini a Roma in via Rovereto (la sede dove il 26 dicembre sarebbe nato il ufficialmente il Movimento Sociale) ed era formato, nell’ottobre del 1946, da Romualdi, Bruno Puccioni, Biagio Pace, Ezio Maria Gray, Nino Buttazzoni, Valerio Pignatelli, Tonelli, dal generale Muratori e da quattro esponenti della sinistra fascista, un po’ più defilati: Giorgio Pini, il sindacalista della Repubblica Sociale Italiana (RSI) Francesco Galanti, Giorgio Bacchi e Gianluigi Gatti, già segretario del GUF di Milano. Questi nomi costituivano il nucleo centrale operativo del cosiddetto «Senato», la prima organizzazione di coordinamento dell’ambiente neofascista. Ad essi negli ultimi tre mesi del 1946, si aggiunsero, di volta in volta, personaggi che rappresentavano altre realtà: Alfredo Cucco, ex esponente fascista siciliano, gli ex-ministri della Repubblica Sociale Piero Pisenti (Giustizia), Domenico Pellegrini Giampietro (Finanze) e Giuseppe Spinelli (Lavoro), l’ex-senatore Carlo Costamagna, Concetto Pettinato, Giovanni Orgera, ex-governatore della Banca d’Italia al Nord.

Sul «Senato» si sa poco: presieduto dal «dottore» Romualdi, esso radunò personalità del vecchio regime e qualche giornalista. Esso «rappresentava, in modo sicuramente labile e frammentario, tutte le componenti del vario neofascismo11» di quel periodo.

Il progetto di Romualdi era quello di creare un movimento che radunasse tutti gli scontenti ma che non si proponesse come un partito di soli reduci e che, pur accogliendo le memorie di ciascuno, si collocasse decisamente verso l’area nazionale e moderata. In campo politico questo significava l’abbandono della progettualità eversiva, il coinvolgimento di tutti i neofascisti in una scelta per la democrazia, la creazione di un partito visibile e concepito per correre nell’agone della democrazia e dei suoi valori.

Tra le iniziative di maggiore rilevanza per la costituzione di un soggetto politico nuovo collocato nella stessa area neofascista, va segnalata la pubblicazione, il 7 ottobre, sulle pagine del settimanale “Rataplan”, della lettera di un «fascista del Nord» con la quale si chiedeva la costituzione di una «Lega degli oppressi e dei perseguitati»: dunque, una sorta di premessa alla realizzazione di un movimento unitario in funzione anticomunista. Qualche tempo dopo, l’11 novembre, lo stesso giornale lanciava un appello per la costituzione di una «Lega di difesa nazionale contro i partiti dell’antinazione reazionari e liberticidi», rivolto a tutti i giornali di area: «Manifesto», «Rivolta Ideale», «Il Merlo Giallo», «Meridiano d’Italia» e altri minori. All’invito della rivista risposero subito, sul numero successivo, «Manifesto», il Partito nazionale fusionista, il Fronte nazionale italiano, il Fronte del lavoro; «Il Merlo Giallo» prometteva appoggio e solidarietà. Il 25 novembre anche il Meridiano d’Italia comunicò la sua adesione, seguita poco tempo dopo da quella del «Fronte nazionale della rinascita», nato il 3 dicembre dall’unificazione del Fronte dell’Italiano e del Partito fusionista.

Secondo Parlato, la prospettiva della nascita di un movimento politico di destra legato alla totalità delle testate giornalistiche neofasciste e con la presenza del Partito nazionale fusionista spinse il «Senato» ad accelerare le pratiche per la costituzione del MSI. Si trattò sicuramente di «due distinte cordate12» che potevano rispondere a disegni diversi: il primo, quello delle testate giornalistiche aveva come protagonisti i giornali e le forze laiche, conservatrici e, forse, massoniche; l’altro, quello del «Senato», forse era più vicino alla DC, se è vero, come affermano alcuni testimoni, che in quei giorni vi furono molti contatti con esponenti del partito di De Gasperi13, allo scopo di unificare il neofascismo.

Dal 30 novembre al 3 dicembre vi fu una serie frenetica di riunioni: il 30 e il 2 dicembre presso l’abitazione di Pignatelli; il 3 presso lo studio di Michelini. La prima fu presieduta da Pini, ma non ebbe alcun risultato concreto, fuorché la decisione del nome da dare al partito, Movimento sociale italiano, che in un primo tempo si preferì siglare in Mo.S.It. Anche la riunione del 2 dicembre non fu conclusiva. Più importante fu quella del 3, che produsse un documento con il quale si dichiarava costituito il Mo.S.It. dai più rappresentativi esponenti del neofascismo14.

Nei venti giorni successivi vi furono altre riunioni durante le quali fu elaborato un programma di orientamento politico, i «dieci punti», ai quali fu premesso l’Appello agli italiani. Quest’ultimo conteneva affermazioni generiche e di principio sulla necessità per gli italiani di ritrovare la concordia; i punti programmatici, invece, si richiamavano molto al fascismo e, in particolare, a quello della RSI: si rivendicava la necessità che l’Italia fosse autonoma, indipendente e integra nei confini e nelle colonie; che la politica estera fosse ispirata al «sacro egoismo» nazionale; che fossero abolite le leggi eccezionali contro i fascisti; che la religione cattolica restasse religione di Stato, con normative disciplinate dai Patti Lateranensi; che la proprietà privata fosse garantita dallo Stato, che si realizzasse la collaborazione tra le categorie e la partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende.

La riunione del 26 dicembre sancì definitivamente la nascita del MSI. I firmatari erano le personalità che maggiormente avevano operato per l’organizzazione neofascista dal 1945 in poi: Romualdi, Michelini, Pini, Pace, Tonelli, Puccioni, Gatti, Baghino, Pignatelli, Buttazzoni, Mieville, Galanti, Foschini. Fu nominato responsabile della segreteria Giacinto Trevisonno, attorno a cui fu costituita la prima giunta esecutiva con Raffaele di Lauro, Giovanni Tonelli, Carlo Guidoboni, responsabile giovanile, e Mario Cassiano.

Le ragioni della nascita


Quali furono le ragioni del sorgere del MSI? Secondo Parlato, l’analisi delle motivazioni che ne permisero la nascita deve essere necessariamente articolata e deve distinguere tra le ragioni interne e le ragioni esterne al fenomeno.

Per quanto riguarda le prime, Parlato evidenzia la necessità, fortemente sentita dai neofascisti, di «recuperare le ragioni di una soluzione politica unitaria, dopo la guerra civile, le stragi dell’immediato periodo successivo al 25 aprile, i campi di concentramento, la demonizzazione, le epurazioni, le emarginazioni15»; una tale acquisizione era il punto di partenza per la ricomposizione legittima del neofascismo e la possibilità di dirigere un partito alla luce del sole, senza la necessità di essere clandestini. Fu su questa linea che Romualdi impostò il processo di aggregazione politica: bisognava innanzitutto trasformare il neofascismo da conventicola di reduci a forza politica inserita nell’alveo della democrazia e in grado di parlare a tutti. Questa impostazione, però, era poco condivisa dalla base del giovane movimento, che continuava a credere nell’azione clandestina rabbiosa e isolata, e costituì il primo elemento equivoco nella storia del MSI:

Legalitario ma non sconfessando i FAR, aperto a tutti ma con forti legami ideali e politici con la RSI, cattolico e occidentale ma con frange interne tutt’altro che disponibili a queste scelte, pronto a fare politica ma con un tasso di nostalgia difficilmente superabile. Romualdi probabilmente non poteva operare scelte drastiche, pena la morte del partito in fasce. D’altra parte, senza il reducismo la base non esisteva: il partito si qualificava nell’opposizione alla legislazione contro i fascisti, nella socializzazione, nel nazionalismo in politica estera, nello Stato forte ed etico. Non vi era altro, in termini di pensiero politico, cui fare riferimento16.

Per quanto riguarda le motivazioni esterne, esse si articolano in due fattori principali. In primo luogo, i contatti dei neofascisti con soggetti esterni al quadro italiano (servizi segreti americani, ambienti ecclesiastici, settori massonici, gruppi monarchici, rappresentanti dei servizi israeliani) in funzione anticomunista: in altri termini, il problema del comunismo, in piena Guerra fredda, poteva servire ai neofascisti a spostare il dilemma tra fascismo/antifascismo su quello meno pericoloso per loro del comunismo/anticomunismo, permettendo, a distanza di soli venti mesi dalla fine della guerra, di costituire un partito neofascista. In secondo luogo, le attenzioni del mondo politico italiano antifascista: da un lato, il Partito Comunista Italiano (PCI) voleva recuperare i fascisti, attirandoli verso il proprio blocco in nome dell’antiamericanismo e del sentimento nazionale, del populismo e della rivoluzione sociale; dall’altro, la DC, che voleva evitare l’emorragia a sinistra dei neofascisti e pensava che un partito neofascista saldamente collocato a destra potesse svolgere un’importanza funzione di supporto anticomunista, richiamava gli stessi in nome della continuità dello Stato, della cattolicità, del nazionalismo conservatore, della burocrazia. In questo modo, la DC otteneva due risultati: da un lato, indeboliva il partito dell’Uomo Qualunque, il quale, con la crescita del MSI, avrebbe perso progressivamente voti; dall’altro si presentava come la forza politica che non aveva ostacolato la riorganizzazione dei neofascisti e, dunque, si poneva in prospettiva come possibile interlocutrice nei confronti di questi ultimi.

Alla luce di tutto questo, secondo Parlato si può affermare che alla base delle ragioni che consentirono la nascita del MSI fu l’opzione di destra, atlantica e nazionale, anticomunista e moderata e che quindi la svolta conservatrice operata dal MSI alla fine della prima segreteria Almirante nel 1950 non avrebbe rappresentato uno snaturamento del neofascismo, ma piuttosto un percorso lineare e coerente.

Il richiamo alla RSI, la via legale e la scelta occidentale

Il MSI si dichiarava erede del fascismo nella sua ultima versione, quella della Repubblica Sociale Italiana. L’assunzione di questa eredità significava una precisa scelta politico-ideale e, cioè, il richiamo al Manifesto di Verona17, nel quale erano contenuti, dopo il preambolo che si ricollegava alle Leggi razziali fasciste, 18 principi socializzatori, antiborghesi e anticapitalisti.

Il nuovo partito nacque segnato da una conflittualità interna che rifletteva le due principali tendenze ideologiche nel dibattito interno al fascismo, e, cioè, il «fascismo-movimento», ovvero la tendenza rivoluzionaria e sinistreggiante tipica del fascismo delle origini, e il «fascismo-regime», caratterizzato da un’impostazione borghese, clericale, moderata e conservatrice. Esse erano incarnate da precisi tipi sociali: i socializzatori, che erano principalmente i giovani reduci della RSI, che avevano condiviso le sorti del fascismo repubblicano, e i corporativisti, che avevano, per così dire, accettato la disfatta del 25 luglio ed erano rimasti al sud abbandonando il duce. Questa contrapposizione teorica rispecchiava anche una divisione geografica, quella della linea gotica: al nord c’erano le componenti più militanti e sinistrorse, al sud quelle più fedeli alla tradizione del regime mussoliniano. Tale contrasto accompagnò per sempre i dibattiti interni al partito.

Un aspetto molto importante da sottolineare è una certa ambiguità che caratterizza nei primi tempi il rapporto tra il MSI e le organizzazioni clandestine (principalmente i FAR): infatti, almeno all’inizio, molti militanti del partito furono contemporaneamente membri di gruppi terroristici. Tuttavia, in seguito, la consapevolezza che solo l’adattamento alle regole della democrazia avrebbe permesso la sopravvivenza, spinse a seguire la via legalitaria. Seguendo questa logica, già nel 1947 il MSI decise di partecipare alle elezioni amministrative e nel 1948 a quelle politiche. Alle comunali di Roma (12 ottobre 1947) il partito ottenne il 4% ed elesse tre consiglieri. Alle politiche riuscì a presentare propri candidati in tutte le circoscrizioni della Camera (fatta eccezione per quelle periferiche di Trento-Bolzano e della Valle d’Aosta), ma al Senato fu presente in appena 30 collegi su 327 (tutti nel centro-sud). Il risultato dell’1,8% con sei deputati (Giorgio Almirante, Luigi Filosa, Roberto Mieville, Arturo Michelini, Gianni Roberti, Guido Russo Perez) e un senatore eletti (Enea Franza), tutti provenienti da collegi elettorali meridionali, fu il peggiore nella storia elettorale del partito18. Il dato più rilevante di queste elezioni fu la «meridionalità19» del voto missino, spiegabile abbastanza facilmente: al nord e al centro, dove c’era stata l’occupazione nazi-fascista ed era ancora vivo il ricordo degli orrori e delle stragi, la mobilitazione antifascista creò serie difficoltà alla campagna elettorale missina; al sud, al contrario, dove meno forte era stata l’influenza dell’esperienza nazi-fascista, il partito poté svolgere la sua campagna elettorale indisturbato. Un’altra caratteristica del voto missino fu l’«urbanità20»: infatti, la percentuale di voto fu più alta nei capoluoghi di provincia (2,6%), piuttosto che nei centri minori (1,4%). Nonostante il pessimo risultato, queste elezioni «furono di importanza cruciale per la storia elettorale missina perché ne disegnarono la geografia elettorale in maniera pressoché definitiva21»: infatti, la meridionalità e l’urbanità saranno le due costanti nella storia elettorale del MSI

Il primo Congresso del partito, celebrato a Napoli dal 27 al 29 giugno 1948, fu infuocato da due dibattiti principali: la posizione del partito in campo socioeconomico e la collocazione internazionale dell’Italia, cioè l’adesione o meno al Patto atlantico.

Per quanto riguarda il primo dibattito, il partito era scisso al suo interno in due principali correnti che rispecchiavano la già osservata divisione ideologica tra socializzatori e corporativisti: la linea della socializzazione per un «socialismo nazionale» (sostenuta dal gruppo dirigente iniziale, guidato da Giorgio Almirante22) e della terza via, alternativa al capitalismo e al socialismo (indicata da Ernesto Massi nella relazione congressuale23), e la linea corporativista (sostenuta da Augusto De Marsanich, ex-sottosegretario alle Poste del regime fascista24).

Se per le scelte in campo socio-economico c’erano queste divergenze, unanime era il consenso sull’ancoraggio al fascismo, sintetizzato nella formula del «non rinnegare e non restaurare» e l’invocazione alla «pacificazione […] tra le generazioni che il dramma della guerra civile ha diviso25». La formula del «non rinnegare e non restaurare» era emblematica dello stato di difficile e di incerta legittimità del partito nel nuovo quadro politico: da un lato, il «non rinnegare» esprimeva sia la necessità di mantenere come costante punto di riferimento il fascismo sia il rifiuto di sottoporlo ad una revisione critica; dall’altro il «non restaurare» decretava l’impossibilità, mutato il contesto, di richiamarsi in toto a quell’esperienza.

Per quanto riguarda la seconda questione, fino al 1951 il MSI si oppose, pur con alcune ambiguità, al Patto atlantico: infatti, nel partito (e soprattutto nella componente di sinistra) era molto diffuso il rancore nei confronti delle potenze occidentali, responsabili del Diktat che aveva imposto condizioni umilianti per il trattato di pace (le amputazioni inflitte al paese in tema coloniale e la mancata attribuzione del territorio di Trieste).

Pesavano nel dibattito sull’adesione o meno al Patto atlantico considerazioni contrapposte: la scelta di campo filoccidentale, se da un lato offriva al MSI la possibilità di uscire dalla marginalizzazione e di entrare in un più ampio schieramento anticomunista, dall’altro comportava l’abbandono del mito della terza via e l’accettazione dei vincitori.

Tuttavia, fu dalle riflessioni sull’esito della seconda guerra mondiale che scaturì la scelta atlantica: poiché la sconfitta di Italia e Germania aveva provocato «il crollo dell’unico bastione possibile della civiltà occidentale26» di fronte al dilagare del comunismo, bisognava ricostruire un argine e l’Italia non doveva essere assente.

Fino al 1951 prevarrà, comunque, una posizione di «atlantismo debole27», con un mutamento deciso dopo il cambio di vertice: il nuovo segretario, Augusto de Marsanich, accelererà il riallineamento su posizioni atlantiche, mantenendo però la riserva sul trattato di pace.

Nel complesso, Almirante consegnò a De Marsanich un partito in via di consolidamento organizzativo, con centinaia di sezioni, qualche decina di migliaia di iscritti e con varie organizzazioni parallele: le donne con il movimento femminile, i giovani, con il Raggruppamento giovanile studenti e lavoratori (Rgsl), gli studenti medi con la Giovane Italia, gli universitari con il Fronte universitario d’azione nazionale (Fuan), i reduci con la Federazione nazionale combattenti repubblicani (Fncr) e i lavoratori con la Confederazione Italiana Sindacati Nazionali Lavoratori (Cisnal).

 Laura Bordoni

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Citazioni e riferimenti

1. ROBERTO CHIARINI, Destra italiana. Venezia, Marsilio, 1995, p. 86: «[…] a questa idea di “democrazia aristocratica” – di democrazia cioè affidata ad “una minoranza […] che, in nome del popolo quale deve essere, si arroga sul popolo un potere assoluto sul popolo quale effettivamente è” – idea che nella sostanza è condivisa indistintamente da fascisti ed antifascisti, il Fronte di Giannini oppone l’intuizione di una “democrazia plebea” dell’ “uomo qualunque”.

2. Ibidem

3. Roma, 20,7%; Napoli, 19,7%; Bari, 46% (insieme però ai liberali e ai monarchici); Foggia, 34,6%; Palermo, 24,5%.

4. Ivi, p. 90

5. Ivi, p. 91

6. GIUSEPPE PARLATO, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia. Bologna, Il Mulino, 2006, p. 172.

7. Ivi, p. 177

8. Ivi, p. 190

9. Ivi, p. 192

10. Il MSI, quindi, avrebbe compreso il gruppo di Romualdi e di Tonelli; gli altri due (il Partito fusionista e il movimento della Pignatelli) resteranno ancora autonomi fino alle elezioni del 1948 e soltanto dopo, circa un anno più tardi, confluiranno nel Movimento Sociale.

11. Ivi, p. 175. Romualdi esprimeva soprattutto l’ultimo fascismo repubblicano; Puccioni poteva essere considerato l’uomo di punta nei rapporti oltreoceano; Buttazzoni rappresentava il principe Borghese e la Decima, ma anche quel vasto e variegato ambiente di formazioni paramilitari monarchiche, pronte a garantire le istituzioni sovrane se i comunisti avessero tentato il golpe; Pignatelli portava l’esperienza della rete del fascismo clandestino al Sud, ma anche i complessi rapporti con l’Office of Strategic Services (OSS); Pini, Pettinato e Giovannini erano tutti e tre esponenti significativi della sinistra fascista; Michelini rappresentava i fascisti clandestini romani del gruppo Onore e assicurava l’apertura di buoni contatti con il mondo economico, aiutato da Orgera; Muratori collaborava con Buttazzoni nell’organizzazione di gruppi filomonarchici.

12. Ivi, p. 245

13. Ibidem. In nota, Parlato osserva che «Secondo la testimonianza di Carlo Pace, figlio dell’archeologo Biagio, molti erano stati i contatti con gli ambienti democristiani, in particolare con Gonella, Marazza e Caronia, nell’autunno del 1946. Furono probabilmente tali contatti a creare la leggenda di una misteriosa riunione che si sarebbe tenuta in quei giorni presso il cosiddetto “vertice segreto” della DC, durante la quale sarebbe stata formalmente ufficializzata l’autorizzazione alla nascita del MSI».

14. Pino Romualdi, Arturo Michelini, Giorgio Pini, Biagio Pace, Nino Buttazzoni, Giorgio Bacchi, Valerio Pignatelli, Ezio Maria Gray; Italo Carbone ed Emilio Profeta Trigona per il Partito nazionale italiano e per l’OLDA, Cesare Giulio Baghino per i prigionieri non cooperatori, Giovanni Tonelli per «Rivolta Ideale» e per il Fronte dell’Italiano, Ernesto de Marzio per Fracassa, Costantino Patrizi per «Rataplan», Giacinto Trevisonno per i Reduci Indipendenti.

15. Ivi, p. 250

16. Ivi, p. 251

17. Il Manifesto (o Carta) di Verona fu emanato il 14 novembre del 1943 durante il I Congresso del Partito fascista repubblicano. Esso può essere definito l’atto costitutivo della Repubblica Sociale Italiana.

18. PIERO IGNAZI, Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano. Bologna, Il Mulino, 1989, p. 359

19. Ivi, p. 365: «Il dato centrale della geografia elettorale del voto missino è la sua “meridionalità” […] Questa caratteristica emerge già nel 1948; anzi, proprio in quella occasione, si registra la massima concentrazione geografica di suffragi di tutta la storia elettorale missina: il 69,6% proviene dalla zona meridionale e dalle isole».

20. Ivi, p. 376: «Un’altra costante del voto missino, oltre alla sua caratteristica di “meridionalità”, è quella di “urbanità”: dal 1948 il Movimento Sociale raccoglie sempre una percentuale più alta nei capoluoghi di provincia, rispetto ai centri minori. L’indice di concentrazione urbana […] si colloca su valori elevati per tutto il periodo 1948-72 al punto che il voto missino nei centri minori costituisce poco più della metà dei voti nelle città».

21. Ivi, p. 362

22. ID., Postfascisti?, p. 15-16. Nel programma elettorale del 1948, infatti, si leggeva: «il processo di socializzazione dovrà attuarsi con la partecipazione dei lavoratori alla direzione responsabile dell’impresa, attraverso organi formati da rappresentanti del lavoro […] del capitale». L’obiettivo è la costituzione di uno «stato nazionale del lavoro» e cioè di un «socialismo che non spezzi e frantumi ma rafforzi e concluda l’unità nazionale e sociale del paese».

23. Ivi, p.16: «Siamo qui convenuti perché fermamente crediamo nella necessità di instaurare un nuovo ordine sociale e […] ai fini di tale ordine vogliamo erigere un nuovo ordinamento economico, ma altresì […] proclamiamo la nostra sfiducia nell’individualismo del sistema liberista capitalista e la nostra avversità al collettivismo marxista, entrambi incapaci di attuare la giustizia sociale».

24. Ibidem: «L’idea corporativa (si realizza) nella socializzazione dell’impresa attraverso la compartecipazione del lavoro manuale e direttivo agli utili dell’azienda e la corresponsabilizzazione dei lavoratori nella gestione di essa».

25. Ivi, p. 17

26. Ibidem

27. Ivi, p. 19

Bibliografia

CHIARINI ROBERTO, Destra italiana. Venezia, Marsilio, 1995

IGNAZI PIERO, Postfascisti? Dal Movimento sociale italiano ad Alleanza nazionale. Bologna, Il Mulino, 1994

ID., Il polo escluso. Profilo del Movimento Sociale Italiano. Bologna, Il Mulino, 1989, pp. 253-414

PARLATO GIUSEPPE, Fascisti senza Mussolini. Le origini del neofascismo in Italia, 1943-1948. Bologna, Il Mulino, 2006, pp. 211-309

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