L’articolo che segue è un estratto della tesi di laurea dal titolo “Una memoria divisa”. La controversa figura di Rodolfo Graziani tra politica repressiva e crimini di guerra in Etiopia, presentata all’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) di Pavia lo scorso maggio.
Parte Seconda
L’attentato: dinamiche, significato e conseguenze
L’entrata trionfante di Badoglio ad Addis Abeba il 5 maggio del 1936 segnò la fine della “guerra dei sette mesi” con l’Etiopia, ma non la cessazione delle ostilità: benché Mussolini avesse proclamato dal balcone di Palazzo Venezia «la riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma1», tre quarti dell’Abissinia, come si chiamava allora, rimanevano ancora da conquistare e per ancora circa cinque anni l’Esercito Italiano sarebbe stato impegnato in strenue operazioni di grande polizia coloniale contro le formazioni partigiani etiopiche.
In questo contesto, tra il 1936 e il ’37, le forze italiane, sotto gli ordini dell’allora vicerè d’Etiopia Graziani, condussero una controguerriglia spietata, in aperta violazione delle leggi di guerra, sperimentando su larga scala quelle che Del Boca ha definito delle vere e proprie «tecniche di genocidio2» contro la popolazione etiope: continue esecuzioni sommarie, rappresaglie con i gas, incendio di migliaia di villaggi con le loro chiese, deportazioni di intere comunità, costruzione di nuovi campi di concentramento. Nonostante l’applicazione di questi metodi brutali, tuttavia, l’occupazione dell’Etiopia si rivelò un’impresa assai ardua: nuovi e sempre più forti focolai di rivolta scoppiavano di continuo, in particolare nell’agitata regione dello Scioa, dove i grandi capi dell’esercito imperiale, i ras, cercavano di organizzare una sollevazione generale. Nel febbraio del ’37, un attentato contro Graziani segnò l’apice dell’insofferenza contro la dominazione italiana e al tempo stesso l’inizio di una delle rappresaglie più feroci che la storia dell’Africa ricordi.
Quel giorno, corrispondente al dodicesimo del mese etiope di Yekatit, il vicerè aveva deciso di festeggiare la nascita del principe di Napoli con una cerimonia, presso il palazzo reale ad Addis Abeba, il Ghebì, in occasione della quale sarebbe stato concesso denaro ai più poveri della città. L’evento riscosse un grande successo di pubblico e sembrò all’inizio procedere con grande tranquillità ma, proprio mentre si elargivano i talleri agli indigenti, scoppiarono alcune bombe a mano, che colpirono indistintamente sia etiopi che italiani. Graziani stesso rimase seriamente ferito, come ricorda nelle sue memorie:
[…] La prima bomba, lanciata sul davanti, ebbe troppo alto percorso e cadde sulla pensilina. Mi balenò in mente che si trattasse di fuochi di fantasia che dovessero accompagnare la cerimonia; e dentro di me biasimavo l’ufficio politico per non avermene data notizia.
La seconda bomba, anch’essa troppo alta, colpì lo spigolo della pensilina sollevando del polverio. Ritenendo che i fuochi fossero fatti dall’alto della terrazza e non avendo ancora l’impressione di che si trattasse, discesi d’impeto le scale che dividevano dal piazzale e mi volsi in su per rendermi conto di ciò che avveniva. M’offersi così, bersaglio isolato e ravvicinato, al gruppo degli attentatori. Fu questo il momento nel quale una terza bomba, caduta a una trentina di centimetri da me, m’investiva in pieno producendomi le trecentocinquanta ferite da schegge che m’offesero in tutto il lato destro dalla spalla al tallone.
Il colpo m’abbattè a terra. Ma subito cercai di rialzarmi. Il generale Gariboldi ed il federale Cortese mi raccolsero e trasportarono nella prima autovettura.
Nello stesso momento nel quale ci mettemmo in moto, un’altra bomba fu lanciata, senza che ci colpisse; all’uscita del cancello del parco, un’altra ancora; e appena fuori venimmo investiti da una raffica di mitragliatrice. Nulla era stato trascurato; una preparazione da fare invidia ai più raffinati terroristi3.
In quel frangente scoppiò il caos più totale: i soldati italiani, non sapendo da chi e da dove fossero state lanciate le bombe, aprirono il fuoco sulla folla, facendo strage di civili. Ma il massacro era solo cominciato: contrariamente a quanto ricordato da Graziani («[…] raccomandai che non fossero perpetrati eccessi se non si voleva perdere in un istante tutto ciò che era stato raggiunto […]»4), in realtà, da quanto emerge da alcune carte conservate nel Fondo Graziani, il vicerè, dall’ospedale in cui era stato ricoverato, diede ordine al federale fascista Guido Cortese5 di scatenare per la città una rappresaglia spietata, che si protrasse per tre giorni. Inoltre, il 28 febbraio Graziani telegrafò a Mussolini proponendo addirittura di radere radicalmente al suolo l’intera capitale e di internarne l’intera popolazione in un campo di concentramento. Il Duce, sebbene avesse dichiarato che l’attentato dovesse segnare l’inizio di un «radicale repulisti», tuttavia rifiutò la proposta estrema di Graziani, che avrebbe scatenato a livello internazionale un’impressione sfavorevolissima per il regime. Dispose, però, che venissero passati per le armi tutti i civili e i religiosi, anche se solo sospetti, e che fossero deportati in Italia i capi etiopici:
«Non attribuisco al fatto un’importanza maggiore di quella che effettivamente ha, ma ritengo che debba segnare inizio di quel radicale repulisti assolutamente, a mio avviso, necessario nello Scioà».
«Nessuno dei fermi già effettuati e di quelli che si faranno deve essere rilasciato senza mio ordine. Tutti i civili e religiosi comunque sospetti devono essere passati per le armi e senza indugi».
«[…] fatti del genere si reprimono non solo colpendo gli esecutori, ma colpendo la collettività nella quale è sorta l’idea e nella quale vivevano i colpevoli6».
In obbedienza a questi ordini, è stato calcolato che tra il marzo e il novembre del 1937 furono trasportati in Italia circa 400 notabili7. É impossibile, invece, anche a distanza di anni, fare un bilancio preciso della strage di Addis Abeba, compiuta tra il 19 e il 21 febbraio. Approssimativamente, si ritiene che essa debba aggirarsi tra le 6000 unità, come riferito dai giornali inglesi, francesi e americani dell’epoca, e le 30000 unità, come denunciato dall’Etiopia in seguito all’occupazione8.
É evidente che l’attentato, peraltro ricordato ancora oggi nel calendario etiopico, non si ridusse semplicemente ad un attacco diretto alla persona di Graziani. Se fosse stato solo questo, gli effetti che avrebbe prodotto sarebbero stati certamente meno impressionanti. Quell’attentato ebbe un significato ben più ampio e importante, come dimostrarono le vistose conseguenze sia sulla condotta delle autorità italiane sia sull’organizzazione della resistenza etiopica.
Dal punto di vista della politica seguita dal governo italiano, l’attentato perlopiù è stato considerato dagli studiosi un vero e proprio punto di svolta, che diede inizio a un inasprimento delle misure di rigore, ma anche ad una una diffusa paura di complotti. Ha osservato, per esempio, Canosa:
[la politica italiana] passò da un atteggiamento di relativa disponibilità a un “colloquio” con la classe dirigente etiopica a uno di totale chiusura, il quale portò con sé un ulteriore indurimento del trattamento riservato agli indigeni, nei cui confronti cominciò a essere sufficiente il minimo sospetto per essere inviati davanti al plotone d’esecuzione9.
Graziani stesso rimase colpito, oltre che fisicamente, anche emotivamente dall’accaduto. Diventato sempre più sospettoso, si mostrò meno incline a compromessi e ancora più orientato verso il pugno duro:
[…] l’attentato [aveva] potuto in qualche modo diminuire le sue speranze, che già non erano grandi in precedenza, di poter gestire la nuova colonia in maniera in qualche modo “collaborativa” e indurlo a comportamenti del tutto inaccettabili, anche nel corso di una campagna coloniale, genere di “attività” nel quale, notoriamente, non è raro trovarsi di fronte a scelte della potenza occupante ai limiti della ferocia10.
Da molte testimonianze sembra che Graziani dopo l’attentato fosse diventato a tal punto paranoico da sembrare uscito di senno. Mayda, per esempio, ricorda le parole di Lessona, secondo cui la notte Graziani dormiva asserragliato nel Palazzo del Governo, «circondato da filo spinato, da mitragliatrici, da carri armati e da un battaglione di guardia11» e, per via dell’attentato, ebbe «un gravissimo esaurimento che accentuò i suoi scatti d’ira, la sua mania di persecuzione12».
Se il racconto di Lessona poteva essere non del tutto veritiero, dati i cattivi rapporti tra lui e il maresciallo, tuttavia, un’impressione simile fu espressa anche da Edoardo Borra, uno dei medici che curò Graziani dopo l’attentato e certamente testimone più attendibile: «Quello che mi colpì in lui fu il fatto che temeva continuamente un attacco degli abissini: aveva trasformato l’ospedale in un bunker e tutte le volte che andava in sala operatoria per l’estrazione delle schegge pretendeva che anche lì venissero piazzate due mitragliatrici13».
Qualche anno fa, Ian Campbell ha ricostruito le origini del progetto, gli obiettivi, le dinamiche e gli effetti del complotto contro Graziani14.
Campbell ha osservato che il piano per uccidere Graziani fu concepito nel luglio del 1936 da due giovani intellettuali, Sebhat Tiruneh e Moges Asghedom. Entrambi furono fortemente influenzati da Abraham Deboch15, desideroso di vendicarsi personalmente nei confronti di Graziani. Tuttavia, con Simeon Adfris16 la cospirazione assunse una dimensione più ampia, arrivando a coinvolgere alcuni membri di rango elevato del precedente governo imperiale, come l’aristocratico Latibalu Gebru17. Agli inizi del ’37, dunque, facevano parte del complotto molte più persone di quanto sia possibile documentare e probabilmente il progetto si era trasformato, da una semplice vendetta personale a una sorta di colpo di stato, che forse prevedeva l’assistenza di ras Destà Damtù18.
In ogni caso, sebbene il progetto originario avesse subito nel corso del tempo delle modifiche, tuttavia queste ultime non ne alterarono l’obiettivo di fondo, cioè quello di far capire al mondo intero che la resistenza etiopica era ancora viva e attiva e che, quindi, le affermazioni di Mussolini secondo cui i fascisti avevano il pieno controllo sul paese erano prive di fondamento. Dal punto di vista degli attentatori, inoltre, dissuadere alcuni membri della Lega delle Nazioni dal riconoscere l’egemonia italiana sull’Etiopia poteva essere un modo per aiutare il paese a mantenere il proprio seggio a Ginevra e il sovrano, una volta tornato in patria, a reclamare il proprio trono, dimostrando che l’Etiopia, sebbene invasa, non era mai diventata un territorio italiano19.
La ricostruzione del 19 febbraio offerta da Campbell si basa principalmente sul resoconto del giornalista Beppe Pegolotti, che si trovava poco distante dal vicerè al momento dell’attentato ed è considerato dall’autore testimone attendibile. Campbell ripercorre, quindi, i primi arrivi a palazzo, il massiccio dispiegamento delle forze dell’ordine, l’apparizione di Graziani e il suo discorso alla folla, l’elargizione delle elemosine, l’attentato e, infine, la fuga di Abraham e Moges, della quale esistono molte versioni.
Rispetto alle conseguenze dell’attentato, infine, Campbell ha individuato tre diversi «livelli20» di influenza: immediata, di primo grado e di secondo grado. Il primo e diretto effetto fu il fatto che l’attacco venne posto all’attenzione della stampa internazionale e, quindi, esso generò dubbi in seno ai membri della Lega delle Nazioni sull’effettiva capacità degli italiani di controllare l’Etiopia. Le conseguenze di secondo livello, indirette, agirono sul popolo etiope, che divenne oggetto di una rappresaglia mostruosa, per dimensioni, terrore e grado di brutalità. Vi furono poi gli effetti di terzo livello, indiretti ma più duraturi, originati dalle conseguenze della repressione: 1) una grande ripresa dei movimenti di resistenza, soprattutto nelle aree rurali, all’occupazione; 2) un’intensificazione della politica di spoliazione dei nobili del loro potere (aspetto che avrebbe facilitato l’imperatore, dopo la liberazione, nel processo di costruzione di uno stato unitario); 3) la perdita di un’intera classe intellettuale, di cui si sarebbe sentita la mancanza nel dopoguerra e nei decenni successivi, fino al presente.
Il massacro di Debrà Libanòs
Si è visto che Graziani ordinò, immediatamente dopo l’attentato, la messa a ferro e fuoco di Addis Abeba, e che soltanto pochi giorni dopo, seguendo le disposizioni del Duce, provvide a far deportare in Italia i membri dell’aristocrazia etiopica. La “punizione” per aver attaccato la massima autorità italiana in Etiopia, però, non era ancora finita. Graziani ordinò infatti la strage di tutti gli indovini e i cantastorie, rei di andare in giro a predicare l’imminente fine della colonizzazione italiana, degli ex-allievi della Scuola Militare di Olettà e degli appartenenti all’associazione dei «Giovani Etiopici21», che, come si evince dalle sue memorie, egli riteneva, erroneamente, avessero con ogni probabilità concepito l’atto terroristico:
[…] Ras Immirù era il più autorevole e il più stimato come comandante militare perché aveva compiuto i suoi studi in Francia, nell’accademia di Saint-Cyr. Rimasto in armi dopo il 9 maggio, non aveva mai fatto approcci per la sottomissione. Durante il periodo delle piogge era rimasto inattivo raccogliendo nelle file dei suoi armati i più accesi elementi nazionalisti, tutti gli ex-allievi della Scuola Militare di Oletta, e gli appartenenti all’associazione «Giovani Etiopici»[…] .
[…] durante le indagini sul complotto del 1937, risultò che ras Immirù al momento d’arrendersi affidò agli elementi nazionalisti il mandato di compiere atti terroristici in Addis Abeba, e forse da quel momento furono tese le fila di quanto poi avvenne […]22
Liquidati la nobiltà ahmara, gli esponenti di spicco dell’intellighenzia etiopica, i cadetti della scuola militare di Olettà, la folla anonima e miserabile di indovini, cantastorie, stregoni ed eremiti, Graziani puntò ad un nuovo bersaglio.
Il vicerè, benché non esistessero prove concrete a favore di questa tesi, era convinto che ad aiutare gli attentatori, offrendo loro riparo dopo il lancio delle bombe, fossero stati i monaci del monastero di Debrà Libanòs. Fondato nel XIII secolo da San Tekle Haymanot23 nella Scioa del nord, a circa 90 chilometri da Addis Abeba e divenuto nel corso dei secoli un rinomato centro di insegnamento teologico, il monastero era molto legato alla nobiltà e alla monarchia cristiana ahmara:in particolare, era in stretti rapporti con l’abuna Petròs24, che aveva costruito poco distante dal luogo in cui sorgeva il convento la propria residenza e che, assieme al figlio di ras Kassa, Aberra Kassa25, aveva contribuito all’organizzazione della resistenza contro i fascisti ad Addis Abeba. Per questi motivi, i monaci di Debrà Libanòs erano già da tempo guardati con sospetto da Graziani, che aspettava la giusta occasione per liquidare una volta per tutte il clero cristiano-copto.
Come fu pianificata, nei dettagli, la “vendetta” del maresciallo d’Italia? E quale fu l’entità dello sterminio? A queste domande, rimaste per lungo tempo irrisolte, sia per la mancanza di adeguate ricerche e documentazione, sia per un muro di omertà calato sulla vicenda da parte dei protagonisti e delle autorità italiane, hanno provato a dare una risposta, ormai circa vent’anni fa, Ian Campbell e Degife Gabre, in due articoli tradotti in italiano per la rivista Studi Piacentini26.
I due studiosi, grazie alle ricerche compiute direttamente sul suolo etiope e all’interrogazione di monaci e civili che avevano assistito a una o più fasi del massacro, hanno potuto ricostruire minuziosamente l’accaduto, dall’attentato a Graziani fino alla predisposizione e all’attuazione di un vero e proprio eccidio, che fu pianificato con cura e perpetrato agli ordini del comandante della 2ª brigata indigeni dell’Eritrea, Pietro Maletti27.
La mattanza durò più giorni ed ebbe per teatro diverse località. É impressionante il grado di indicibile violenza con cui la comunità religiosa di Debrà Libanòs venne progressivamente trucidata: il 18 maggio Maletti isolò il monastero; il 20, data importantissima per Debrà Libanòs28, comandò che venissero uccisi per primi i disabili e gli ammalati; il 21 vennero trasportati sui camion centinaia di prigionieri a Laga Wolde, dove, una volta bendati e legati tra loro, furono fucilati e fatti rotolare nel dirupo; il 22, altri camion portarono le ultime persone a Debrà Berhan: qui, trenta giovanetti furono separati dal resto del gruppo e inviati nel campo di concentramento di Danane, mentre gli altri prigionieri furono deportati a Guassa e lì ammazzati; infine, il 29, furono fatte le ultime vittime: tre monaci di Debrà Libanòs, imprigionati in precedenza ad Addis Abeba, vennero fucilati.
Graziani ovviamente sottostimò il numero delle vittime, indicando nei suoi telegrammi 452 esecuzioni in totale, ma, secondo i calcoli effettuati da Campbell e Gabre, il numero dei morti fu decisamente più alto. La tabella riportata a pagina 111 riassume i giorni del massacro, le località, le vittime e il numero delle esecuzioni, confrontando le cifre ufficiali con la stima degli autori. Complessivamente, furono uccise tra le 1400 e le 2000 persone29:
Giorno della esecuzione (1937) |
località |
vittime |
Numero delle esecuzioni |
|
cifre ufficiali |
stima degli Autori |
|||
20/05/’37 |
Debrà Libanòs |
disabili |
0 |
20-30 |
21/05/’37 |
Laga Wolde, presso Ficcè |
monaci e preti |
320 |
1000-1600 |
22/05/’37 |
Guassa, Debrà Berhàn |
Diaconi, insegnanti e altri |
129 0 |
124 276 |
29/05/’37 |
Addis Abeba |
monaci |
3 |
3 |
Totale |
452 |
1423-2033 |
Oltre a questi, morirono anche i bambini e il personale di servizio che lo tsabate Gabre Mariam aveva nascosto, al momento dell’assedio del monastero, nello scantinato di Meskel Beit, nel tentativo di proteggerli dalla furia degli assalitori.
Se a tutto questo si aggiunge anche il fatto che le vittime di Laga Wolde non ricevettero alcuna sepoltura cristiana, almeno fino al ritorno dell’imperatore Hailè Selassiè nel 1941, e che le vittime di Debrà Berhàn giacciono ancora là dove caddero, si può ragionevolmente concludere che l’eccidio ordinato da Graziani sia stato uno degli episodi più raccapriccianti dell’occupazione.
Mai, nella storia dell’Africa, una comunità religiosa aveva subito uno sterminio di tali proporzioni.
I campi fascisti di Nocra e Danane
Graziani ricorse ampiamente alle deportazioni, sia in Libia, sia in Etiopia, ma l’utilizzo dei campi fu in generale una prerogativa della politica di occupazione fascista, attuata con lo stesso grado di violenza prima in Africa e successivamente nei Balcani. Si deve dire anzi, come ha osservato Davide Rodogno che «il tipo di repressione degli Italiani nei Balcani […] si ispirò decisamente all’esperienza coloniale in Africa» dal momento che «fu proprio nelle colonie che gli italiani sperimentarono repressioni, deportazioni e internamenti di massa30».
Il regime fascista ovviamente cercò in ogni modo di censurare la realtà dell’internamento, principalmente allo scopo di evitare problemi con la stampa estera: per esempio, in una comunicazione riservata, indirizzata a Badoglio nel 1930, Mussolini chiese di non impiegare esplicitamente l’espressione di “campo di concentramento”, ma quella di “campo di raccolta” o di “accampamenti per popolazioni” o per “sottomessi” o “zone protette31”.
A lungo si è taciuto sull’argomento, anche a causa, come ha osservato Richard Pankhurst in un’intervista rilasciata qualche anno fa, della limitata e insufficiente ricerca storica condotta in Etiopia, della scarsa volontà da parte del governo italiano di far luce sulla vicenda e della quasi totale assenza di fonti scritte sull’accaduto, per ricostruire il quale occorre rifarsi più che altro alle testimonianze orali32.
I lavori soprattutto di Del Boca e le interviste condotte da Fabienne Le Houerou e da Campbell negli anni Ottanta/Novanta hanno aperto uno spiraglio su questa pagina di storia33, di cui molto resta da scoprire.
Per quanto riguarda lo status della letteratura scientifica, è stato studiato finora soprattutto l’aspetto della deportazione e dello sconfinamento dell’élite etiope in Italia34; meno attenzione è stata dedicata, invece, all’argomento dell’internamento in Africa Orientale. Quanti campi vi furono costruiti? A quale tipologia appartenevano? In altri termini, quale ne era la finalità?
A queste domande ha provato a dare una risposta Roman Herzog35, nell’ambito di uno studio sui campi fascisti dalle guerre in Africa alla Repubblica di Salò, i cui risultati sono stati raccolti sul sito www.campifascisti.it36. Herzog, unendo le interviste agli storici e la letteratura scientifica in materia alla raccolta di testimonianze dirette e alla raccolta e pubblicazione di documenti, è riuscito a chiarire alcuni aspetti poco noti della realtà dell’internamento in Africa.
Il lavoro ha consentito innanzitutto una mappatura dei campi, che, se per la Libia ha confermato numeri già noti (20 campi di concentramento e cinque campi da definire, oltre a 14 campi per prigionieri di guerra e due località di confino), ha rilevato invece delle novità importanti per quanto riguarda l’Africa Orientale. La ricerca storica, infatti, ha insistito soprattutto, o quasi unicamente, sui campi di concentramento di Nocra in Eritrea e di Danane in Somalia come luoghi di internamento per etiopi, ma nel corso del progetto è stata documentata l’esistenza di ben 57 campi in Africa Orientale: 35 in Etiopia, 14 in Eritrea e 8 in Somalia. Di questi campi, per un gran numero resta ancora da definire la tipologia (19), soprattutto per quanto riguarda l’Etiopia (16):
I campi fascisti in Africa Orientale – Etiopia37
Nome |
Luogo |
Tipo di campo |
Addis Abeba Municipality Building |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Bonga |
Bonga |
Campo da definire |
Caserma dei Carabinieri di Addis Abeba |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Chagal |
Wartu Chagal |
Campo da definire |
Dabat |
Dabat |
Campo da definire |
Debre Birhan |
Debre Birhan o Debre Berhan |
Campo da definire |
Debre Sīna |
Debre Sīna |
Campo da definire |
Debre Tabor |
Debre Tabor |
Campo da definire |
Dejazmach Latibalu’s Residence |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Dejazmach Oube’s Residence |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Forte di Mandida |
Mendida |
Campo da definire |
Genete Le’ul Palace |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Maktiwa |
Mak’at’awa o Mek’et’ewa |
Campo da definire |
Police Garage/Fit-Ber Prison |
Addis Abeba |
Campo da definire |
Ras Abbebe’s Residence |
Addis Abeba |
Campo da definire |
St. Tekle Haymanot Church |
Debre Libanos |
Campo da definire |
Akaki Radio Station |
Pianura di Akaki, 16 km a sud di Addis Abeba |
Campo di concentramento |
Ambo |
Ambo |
Campo di concentramento |
Dire Dawa |
Dire Dawa |
Campo di concentramento |
Harar |
Harar |
Campo di concentramento |
Mojo |
Mojo o Moggio |
Campo di concentramento |
Shano |
Shano |
Campo di concentramento |
Adwa (Adua) |
Adwa |
Campo per prigionieri di guerra |
Enda Medani Alem |
Enda Medhane Alem o Inda Medhani Alem |
Campo per prigionieri di guerra |
Mek’ele (Macallè) |
Mek’ele |
Campo per prigionieri di guerra |
Alam Bakagni prison |
Addis Abeba |
Carcere |
Bejirond Zelleke Agidew’s Residence |
Addis Abeba |
Carcere |
Commissariato di Debre Birhan |
Debre Birhan |
Carcere |
Mek’ele (Macallè) |
Mek’ele |
Carcere |
St. George’s Prison |
Addis Abeba |
Carcere |
Tige Bet/Tyit-bet |
Addis Abeba |
Carcere |
Addis Abeba |
Addis Abeba |
Località di soggiorno obbligatorio |
Commissariato di Addis Abeba |
Addis Abeba |
Località di soggiorno obbligatorio |
Ufficio politico di Addis Abeba |
Addis Abeba |
Località di soggiorno obbligatorio |
Oltre a dimostrare che il fenomeno dell’internamento in Africa Orientale fu molto più vasto di quello che si era pensato, il lavoro di Herzog ha messo in luce altri quattro aspetti innovativi: 1) la partecipazione di civili italiani nella deportazione e nell’internamento; 2) l’idea che, a dispetto della tesi finora comunemente accettata secondo cui l’internamento sarebbe stato messo in atto soprattutto dopo e a causa dell’attentato a Graziani, il 19 febbraio del ’37, l’internamento sia in realtà proseguito, o addirittura impiegato in maniera ancora più massiccia dopo l’arrivo di Amedeo di Savoia; 3) l’ipotesi che l’esperienza africana abbia fatto da modello per il sistema concentrazionario nelle successive guerre fasciste, soprattutto per la concezione razzista del nemico come essere umano inferiore e, quindi, maltrattabile; 4) la possibilità di parlare di una “politica sterminatoria”, dato l’elevatissimo tasso di mortalità, per quanto riguarda alcuni campi in Etiopia, in particolare quelli di Ambo e Shano.
I campi di concentramento per etiopi più noti di Nocra e Danane furono entrambi eretti al di fuori dell’Etiopia e rimasero in funzione fino al ’41, anno della loro liberazione da parte delle truppe inglesi.
Del Boca, nel volume Italiani brava gente? ha dedicato un capitolo a Nocra, spiegandone la genesi, il funzionamento e la tipologia degli internati38.
Il penitenziario era stato costruito nel 1887 per iniziativa del generale Tancredi Saletta39, che aveva individuato nella scelta dell’isola delle Dahlak40 la possibilità di un isolamento tale da scoraggiare ogni tentativo di fuga e da garantire la massima segretezza sui metodi coercitivi impiegati. Le condizioni di vita dei detenuti, oltre che essere rese difficili dal clima caldissimo, erano aggravate dalla penuria d’acqua e dal lavoro coatto, nelle cave di pietra. Il campo ospitò dapprima soltanto criminali comuni, poi, dal 1889 anche politici, agitatori, maghi e indovini che predicavano l’imminente fine della colonizzazione italiana e, infine, dal 1936, dopo l’occupazione italiana dell’Etiopia, soldati e funzionari del dissolto impero di Hailè Selassiè, guerriglieri, notabili di basso rango e, appunto, gli studenti scampati ai massacri di Debrà Libanòs e Debrà Berhan.
Su Nocra, invero, abbiamo ben poche testimonianze orali: un sopravvissuto a entrambi i campi, Ato Kenna, intervistato da Le Houerou nel 1994, ha raccontato che le condizioni di questo campo erano peggiori rispetto a quelle di Danane, soprattutto per il clima particolarmente torrido della zona in cui era stato costruito:
Mi hanno trasferito (da Nocra) a Danane. Lì è stato meglio. L’amministratore del campo mi ha assegnato dei lavori di assistenza agli internati: portare l’acqua, il cibo, le gallette, che noi riscaldavamo al sole. Molti sono morti, tutti i giorni, tutti i giorni si moriva (a Danane). Ma Nocra è stato più terribile, talmente caldo, che si dimagriva, si dimagriva. É stato molto duro41.
Danane, invece, venne costruito sul finire del 1935 per volontà dello stesso Graziani, ma entrò in funzione solo al termine del conflitto. Situato sulla costa somala, tra Mogadiscio e Merca, in una zona isolata e completamente deserta, esso poteva contenere 400 tende, per un massimo di 2000 persone circa, e venne destinato ad imprigionare militari, detenuti comuni e oppositori politici. Tuttavia, dopo l’attentato del 19 febbraio, Graziani ordinò che vi venissero reclusi anche civili. Il campo non prevedeva alcuna attività lavorativa per i prigionieri, sebbene molti venissero destinati a lavorare nei cantieri stradali e nelle concessioni agricole di Genale.
Sul campo di Danane possediamo informazioni più numerose rispetto a Nocra, grazie soprattutto al numero maggiore di testimonianze orali e scritte rilasciate, sia da parte delle fonti ufficiali del governo fascista, sia da parte dei superstiti. Oltre a quelle raccolte da Herzog42, davvero preziosa è la testimonianza scritta del comandante del campo, Eugenio Mazzucchetti43.
Rispetto alle condizioni di vita e al trattamento dei detenuti, le relazioni italiane dell’epoca differivano molto, ovviamente, dalle denunce delle vittime. Per quanto riguarda le quantità di cibo somministrato, per esempio, Azolino Hazon, comandante dei Carabinieri in Etiopia, affermò:
Vitto giornaliero distribuito: 650 grammi di pane ottimo; 1 pasta di riso e pasta con condimento di salsa di pomodoro, cipolle e olio; 2 distribuzioni di tè con zucchero; acqua dei pozzi locali. Due volte alla settimana viene distribuita carne fresca in ragione di 200 grammi per individuo. Giornalmente un limone e una cipolla cruda a testa. Ai più deboli latte condensato oppure farina e olio. A parere del prof Tedeschi [ispettore del servizio sanitario della Somalia] il vitto distribuito contiene circa 1800 calorie, sufficienti alla nutrizione normale.
Al contrario, Michael Blatta Bekele Hapta, giudice dell’alta corte di giustizia etiopica, internato a Danane nel luglio-agosto del 1936, riferì sotto giuramento alla commissione per i crimini di guerra che «il cibo che gli italiani ci davano era veramente nocivo per la nostra salute. Consisteva principalmente in gallette rotte infestate da vermi”.
Anche l’immagine lasciata da Mazzucchetti differisce da quella delle fonti ufficiali del governo fascista. Così scrisse nel suo diario il 15 agosto del ’37:
Appena entrato nel campo uomini mi si è presentata la scena di un cadavere nudo e scheletrico legato come un baccalà che stavano lavando per poi seppellirlo! Le donne e qualche uomo mi si sono fatti incontro mostrandomi delle pagnotte con l’interno verde come del gorgonzola. Altri mi dicono che non possono mangiare il rancio perché dannosempre riso e cattivo.
Complessivamente, il campo ospitò 6500 internati, dei quali quasi la metà (3175) morirono. La causa principale dei decessi fu rappresentata dalle pessime condizioni igienico-sanitarie che, unite alla scarsa alimentazione, contribuirono alla diffusione di malattie come malaria e polmonite. Imru Zelleke, internato nel marzo del ’37, raccontò ad esempio che
[…] Al principio non vi era assistenza medica , sebbene in seguito fu assegnato un dottore al campo. La gente si ammalava di malaria, dissenteria, scorbuto, tifo, malattie tropicali e ogni sorta di malattia causata dalla malnutrizione e dalle pessime condizioni di vita.
Diverse centinaia di uomini morirono nei primi mesi, in tutto penso che più di un terzo dei prigionieri deportati a Danane morì. Le condizioni nella parte centrale del campo erano malsane a causa delle alte mura che lo circondavano, non c’era abbastanza circolazione d’aria ed il caldo rendeva l’aria soffocante ed insalubre.
C’erano solo otto o dieci buche come latrine e potete immaginare come potesse essere con centinaia di prigionieri sofferenti di diarrea.
A portare alla morte erano anche il lavoro coatto e le torture, eseguite sui prigionieri che non volevano o non riuscivano a lavorare. Sempre Zelleke raccontò che «ogni mattina i maschi adulti venivano portati fuori dal campo per tagliare la legna e svolgere altri lavori pesanti che aveva ordinato il comandante del campo». Michael Tessema, internato nel settembre del ’37, spiegò che «i lavori nel campo comprendevano la pulizia, andare in un posto chiamato Canale per lavori in un giardino, raccogliere legna e costruire strade. Donne e uomini che si rifiutavano di lavorare o che erano troppo deboli, furono legati e appesi a un muro, con i piedi penzoli».
Lo stesso Tessema riferì che un altro motivo dei decessi fu rappresentato dalle iniezioni di arsenico e stricnina44, praticate dal direttore sanitario del campo, Antonino Niosi, per uccidere gli internati che si erano ammalati e che, quindi, non erano più utili ai lavori: «se i prigionieri si ammalavano, il capitano Antonio diceva che sarebbe stato meglio per loro morire. E li ammazzava con una iniezione di scricnina e arsenico. Altri, che venivano per farsi curare, sono stati legati ai letti e operati contro la loro volontà».
Sebbene il tasso di mortalità fosse altissimo, secondo Herzog non si può tuttavia parlare di Danane come di un campo di sterminio; forse è più giusto dire, accogliendo la tesi di Campbell, che Graziani utilizzasse Danane «per togliere le persone dalla circolazione», mandandole in un luogo chiaramente isolato rispetto al resto del mondo45.
Inquadrando l’esperienza africana all’interno del complessivo progetto fascista e, quindi, non considerandola solo e unicamente come l’ultima impresa del colonialismo italiano, secondo Herzog è possibile affermare che: 1) i campi fascisti avevano una funzione prevalentemente carceraria, sebbene l’alta mortalità di alcuni sembri suggerire l’esistenza di una «negligenza amministrata» da parte delle autorità italiane, negligenza che si differenzia totalmente dal modo di eliminazione pianificato e industriale dei nazisti, ma che in ogni caso si configurò come un metodo per uccidere persone; 2) i campi avevano un ruolo all’interno del progetto di creare uno “spazio vitale” per gli italiani, poiché servivano a svuotare intere regioni dagli etiopi; 3) dietro alcuni campi, come quelli di Nocra e Danane, c’era una logica economica, che però finora non è stata studiata.
Ulteriori ricerche in questa direzione potrebbero permettere un approfondimento delle analogie e delle differenze tra il sistema concentrazionario italiano e quello tedesco.
Laura Bordoni
[A seguire la terza parte della tesi dedicata ad una riflessione sull’impunità di Graziani e degli altri criminali di guerra italiani]