L’articolo che segue è un estratto della tesi di laurea dal titolo “Una memoria divisa”. La controversa figura di Rodolfo Graziani tra politica repressiva e crimini di guerra in Etiopia, presentata all’Istituto Universitario di Studi Superiori (IUSS) di Pavia lo scorso maggio.
Parte prima
La figura di Rodolfo Graziani è stata oggetto nel corso del tempo di numerose ricostruzioni1. Tuttavia, gli unici lavori storiografici di più recente approfondimento consistono nella voce realizzata nel 2002 da Angelo Del Boca per il Dizionario Biografico degli Italiani2 e in un volume pubblicato nel 2004 da Romano Canosa3. Entrambi i contributi offrono una ricostruzione della vita di Graziani, avvalendosi, in primo luogo, delle numerose opere scritte dal maresciallo durante le operazioni militari e dopo la Seconda guerra mondiale4: particolare rilievo hanno assunto le memorie confluite sotto il titolo Ho difeso la patria, scritte a partire dal 1946 e ripubblicate postume nel 1986, con una prefazione di Indro Montanelli, assieme a un diario inedito dei giorni della sua prigionia5. I due storici hanno ugualmente studiato l’importantissimo Fondo Graziani, conservato presso l’Archivio Centrale dello Stato di Roma e contenente preziosi telegrammi, lettere e verbali6, scambiati tra il maresciallo e Mussolini, Pietro Badoglio e Alessandro Lessona7.
La vita
Graziani nacque a Filettino, in provincia di Frosinone, l’11 agosto del 1882, ma trascorse gran parte della sua infanzia e della sua prima giovinezza ad Affile, un piccolo comune situato a est di Roma.
Dopo aver partecipato alla Prima guerra mondiale, ottenendo il grado di colonnello, la sua carriera militare conobbe una rapida ascesa: fu protagonista delle operazioni di riconquista e di “pacificazione” della Libia (in Tripolitania nel 1922-’23 e in Cirenaica nel 1925-’31), vicegovernatore della Cirenaica dal 1930 al ’34, governatore della Somalia nel 1935, comandante del fronte Sud durante l’invasione dell’Etiopia (1935-’36), vicerè di quest’ultima (1936-’37) . Le operazioni militari in Africa gli procurarono la fama in Italia e a livello internazionale e gli valsero altresì l’appellativo di “macellaio degli arabi”8, per la particolare spietatezza e durezza dei metodi dispiegati (che non risparmiarono deportazioni, internamenti, impiego di gas, bombardamenti a tappeto delle città, rappresaglie selvagge e indiscriminate). Fu soprattutto in Etiopia, però, come vedremo nel prossimo capitolo, che Graziani si attirò gli odi maggiori, finendo per rimanere vittima di un attentato il 19 febbraio del 1937.
Nel dicembre dello stesso anno, Mussolini, a causa dell’astio generato presso la popolazione da una rappresaglia eccessivamente brutale, destituì il maresciallo dal suo incarico, affidando la carica a un personaggio meno discusso, Amedeo di Savoia, duca d’Aosta9.
Tornato in Italia, Graziani si ritirò per un breve periodo a vita privata, ma il 3 novembre del 1939 fu nominato capo di Stato Maggiore dell’Esercito.
In seguito, nel 1940, morto Italo Balbo, ottenne il comando delle truppe italiane in Africa settentrionale contro gli inglesi, incarico che gli venne però successivamente revocato a causa degli insuccessi militari riportati in Egitto.
Dopo l’8 settembre aderì alla Repubblica Sociale Italiana, divenendo ministro della difesa della Repubblica di Salò fino all’aprile del ’45 e guidando le operazioni di guerra a fianco dei tedeschi.
Il 27 aprile dello stesso anno si consegnò agli Alleati e, dopo vari trasferimenti, venne internato come prigioniero di guerra in un campo di concentramento anglo-americano ad Algeri, dove rimase dal 12 giugno del ’45 al 16 febbraio del ’46.
Nel 1946, dopo essere stato restituito alle autorità italiane, venne tradotto prima nel carcere di Procida, poi a Roma, nel carcere di Forte Boccea e, infine, essendosi aggravate le sue condizioni di salute, nell’ospedale militare del Celio.
Nell’ottobre del ’48 gli fu intentato un processo per collaborazionismo con i tedeschi e nel 1950 venne condannato a 19 anni ma, grazie a vari condoni, soltanto quattro mesi dopo il verdetto tornò in libertà. Una sorte egualmente negativa, come vedremo più approfonditamente nel terzo capitolo, ebbero i tentativi fatti dal governo imperiale etiopico di processarlo per crimini di guerra.
Non solo Graziani rimase impunito, ma addirittura entrò in politica: nel marzo del ’53, infatti, gli venne conferita la presidenza onoraria del Movimento Sociale Italiano (MSI). Morì a Roma pochi anni dopo, l’11 gennaio del 1955.
Il mausoleo della discordia
La costruzione, nel 2012, di un mausoleo in onore di Graziani per iniziativa della giunta di centro-destra del comune di Affile ha riportato prepotentemente al centro del dibattito pubblico la figura del generale, rinnovando in tal modo, attraverso di essa, il persistere di una “memoria divisa” sul personaggio e su una delle pagine più controverse della storia del regime fascista.
La vicenda destò scalpore presso la stampa internazionale: il Telegraph, El Pais e il New York Times usarono parole molto dure nei confronti dell’iniziativa, evidenziando innanzitutto le gravissime accuse a carico di Graziani. Il Telegraph, per esempio, ricordò che il maresciallo, a seguito dell’utilizzo dei gas tossici contro i soldati nemici in Libia e in Etiopia, durante le guerre coloniali negli anni ’20 e ’30, era stato accusato di «crimini contro l’umanità10» e che, inoltre, per l’attività svolta al servizio della Repubblica di Salò, era stato portato a processo davanti a un tribunale militare italiano con l’accusa di «aver organizzato rappresaglie partigiane e di aver emanato un decreto con il quale si minacciava qualunque italiano, che avesse rifiutato di sottostare a quell’ordine, di condanna a morte e molti vennero fucilati in questa maniera11».
La stampa straniera si soffermò parimenti sulle divisioni, in seno alla classe politica locale, rispetto alla questione: il New York Times, per esempio, riportò le dichiarazioni contrastanti di Ercole Viri, sindaco di Affile, ed Esterino Montino, leader regionale del Partito Democratico12, osservando, in generale, che l’impressione suscitata dalla polemica era che «l’Italia non fosse mai del tutto giunta a fare i conti col proprio passato» e che, anche in quel momento, pochi italiani fossero «pienamente consapevoli degli episodi coloniali», che sembrava non fossero mai stati «al centro del dibattito nazionale13».
Una medesima riflessione fu espressa anche dalla BBC: «è curioso» – osservò il principale servizio pubblico radiotelevisivo del Regno Unito – «che non ci sia stata una protesta ufficiale per il fatto che una piccola città vicino alla capitale abbia potuto, nel 2012, rendere pubblicamente onore ad un uomo che ha seminato migliaia di morti tra gli africani e recato disonore al suo Paese»14.
Anche la stampa italiana, principalmente quella romana, si interessò alla vicenda, denunciando l’utilizzo di fondi pubblici della regione Lazio (circa 127000 euro, originariamente destinati al completamento del parco di Radimonte) per la costruzione dell’opera e, più in generale, l’assenza di un dibattito diffuso e di una condanna forte da parte dell’opinione pubblica italiana. Gian Antonio Stella, per esempio, scrisse sul Corriere della Sera un articolo intitolato eloquentemente Quel mausoleo alla crudeltà che non fa indignare l’Italia, osservando quanto fosse vergognoso che il comune di Affile avesse costruito un mausoleo per celebrare la memoria «di quello che, secondo Angelo Del Boca, massimo studioso di quel periodo, fu “il più sanguinario assassino del colonialismo italiano”» e come fosse incredibile che la questione avesse sollevato scandalizzate reazioni internazionali con articoli sul New York Times o servizi della BBC, ma non fosse riuscita a generare un’ondata di indignazione nostrana, «segno che troppi italiani ignorano o continuano a rimuovere le nostre pesanti responsabilità coloniali»15.
In risposta alle critiche della stampa, la giunta comunale si affrettò a precisare che il mausoleo era in realtà un generico “monumento al soldato”, non dedicato specificatamente alla memoria del capo dell’esercito della Repubblica di Salò. Poco tempo dopo, però, la Giunta stessa cambiò idea, deliberando di dedicare il monumento ufficialmente a Graziani, mentre Francesco Storace, leader de La Destra, dettò all’Ansa una notizia intitolata “Non infangare Graziani”, sostenendo, erroneamente, che «nel processo che gli fu intentato nel 1948 fu riconosciuto colpevole e condannato a soli due anni di reclusione per la semplice adesione alla RSI».
Ma la vicenda continuò a far discutere. Nell’aprile del 2013, la scrittrice italiana di origini somale Igiaba Scego lanciò una petizione per chiedere al governatore della regione Lazio Nicola Zingaretti di prendere posizione contro il monumento, definendo quest’ultimo «un paradosso tragico, una macchia per la nostra democrazia, un’offesa per la nostra Costituzione nata dalla lotta antifascista16».
Poco tempo dopo, a seguito di una denuncia presentata nel 2012 dall’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia (ANPI), la procura di Tivoli aprì un’inchiesta per apologia di fascismo contro il sindaco Viri e gli assessori Giampiero Frosoni e Lorenzo Peperoni, mentre Zingaretti sospese il finanziamento regionale per il mausoleo di Affile, commentando nel suo comunicato che «a parte le palesi violazioni rispetto all’utilizzo del finanziamento pubblico», la sua amministrazione non avrebbe mai avallato «qualsiasi tentativo di distorsione o falsificazione della memoria storica, tanto più nel caso di una figura come quella del generale Graziani» e che la provocazione della giunta comunale di Affile rappresentava «non solo un atto scorretto dal punto di vista legale e amministrativo, ma un’inaccettabile offesa alla libertà, alla democrazia e alla memoria di tutti gli italiani17».
Il processo, apertosi il 23 settembre del 2015, fu contrassegnato da nuove polemiche, che spinsero i sindaci di Stazzema e Marzabotto, Maurizio Verona e Romano Franchi, a costituirsi parte civile nel procedimento contro Viri e la sua giunta, perché, «la pace e la giustizia nel mondo passano in primo luogo nella memoria» – commentarono i due politici – «che costituisce un dovere per ogni cittadino, ma in particolare per i rappresentanti di quelle comunità che hanno pagato un così alto tributo alla libertà, riconquistata con un tributo di vittime civili inermi e il sacrificio di tanti giovani nella lotta partigiana». Verona e Franchi osservarono altresì che «’l’intitolazione di un edificio al maresciallo Graziani», era «ancora più odiosa perché [il monumento era stato] costruito con risorse pubbliche distratte ai servizi essenziali alla sanità, all’istruzione, alle infrastrutture, per finanziare la memoria di un criminale di guerra che fu un protagonista del fascismo», concludendo che «risulta assurdo ancora oggi dover ricordare gli orrori del fascismo che non fu una dittatura bonaria, ma ebbe uguali responsabilità nel nazismo per lo scoppio della Seconda guerra mondiale» e che «la dimenticanza, l’oblio sono il peggiore dei mali perché ci fanno chiudere gli occhi sulle tragedie di oggi che sono le stesse di allora alla cui base ci sono ancora l’ingiustizia e la guerra»18.
Sulla scorta di questa iniziativa, risale a poche settimane fa una lettera, indirizzata dal governatore della regione Toscana Enrico Rossi al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, per chiedere la rimozione del mausoleo, la cui costituzione, si legge nella richiesta, «è un atto gravemente offensivo per la storia della nostra Repubblica» ed è, tra l’altro, «in palese violazione nell’utilizzo dei finanziamenti pubblici19».
In attesa della conclusione del processo, Graziani continua ad essere il simbolo di una nazione che non ha mai chiuso i conti col proprio passato, tanto che sul sito internet del comune di Affile, nella sezione dedicata ai “personaggi illustri” della città, si può ancora leggere che «Graziani seppe indirizzare ogni suo agire al bene per la Patria, attraverso l’inflessibile rigore morale e la puntigliosa fedeltà al dovere di soldato che lo contraddistinsero dall’appartenere alla schiera degli ignobili o alla nutrita categoria dei tanti che perseguirono solo la logica dell’interesse personale» e che «le sue spoglie mortali, trasportate ad Affile tra un’immensa folla di gente, riposano nella tomba del cimitero vecchio, assieme ai suoi familiari, forse troppo dimenticato, come dimenticato fu durante la vita nonostante l’esistenza intera spesa per il bene e la grandezza della Patria»20.
Tuttavia, se è vero, come è stato osservato, che in Italia è mancato «un dibattito pubblico sul passato coloniale21» e che i crimini di guerra italiani commessi sia in Africa sia nei Balcani, per quanto ampiamente studiati dalla storiografia, sono ancora troppo poco conosciuti dall’opinione pubblica, sembra però corretto osservare anche che contro la costruzione del mausoleo a Graziani c’è stata una mobilitazione da parte del mondo politico e dei mass media, che hanno dimostrato un serio interesse verso la questione.
Forse, si potrebbero cogliere questo e altri dibattiti come occasioni per studiare una pagina di storia nazionale a lungo dimenticata e anche, come ha ricordato Igiaba Scego, per «fare nelle scuole un percorso simile a quello che si fa oggi sulla Shoah. Visite guidate, approfondimenti, letture. Perché la memoria prosperi nella mente e nel cuore dei più giovani22».
Laura Bordoni
[A seguire la seconda parte della tesi dedicata ai crimini di guerra in Etiopia]