La questione dei crimini di guerra italiani nei Balcani

di Laura Bordoni / pubblicato il 10 Gennaio 2014
Italia e territori occupati dal Regio esercito nei Balcani, 1942

Italia e territori occupati dal Regio esercito nei Balcani, 1942

La questione dei crimini di guerra compiuti dai militari italiani nei Balcani durante la Seconda guerra mondiale è stato un argomento per lungo tempo poco esplorato dalla storiografia. A far luce sulla vicenda sono stati alcuni lavori storiografici recenti1, di alcuni dei quali mi sono servita per costruire questo breve lavoro.

Per contestualizzare l’argomento, ho fatto riferimento innanzitutto al saggio di Davide Rodogno Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa (1940-1943). Nell’introduzione al volume, Rodogno presenta il suo lavoro come «un’analisi globale», che pone «le politiche di occupazione al centro dell’attenzione2». Dopo aver elencato gli archivi di provenienza dell’amplissima documentazione utilizzata, perlopiù inedita (Archivio dello Stato Maggiore dell’Esercito italiano, Archivio storico-diplomatico del Ministero degli Esteri, Archivio centrale dello Stato, Archivio storico della Banca d’Italia, Archivio dell’Unione delle comunità ebraiche italiane, archivio del Comitè international de la Croix Rouge, archivi greci), l’autore chiarisce l’articolazione della ricerca: nella prima parte del volume sono presentati i rapporti con i tedeschi, i progetti di espansione mediterranea, l’occupazione effettiva, il coordinamento delle politiche e i «conquistatori»; nella seconda, invece, sono presi in esame i diversi aspetti della politica di occupazione: i rapporti con i governi degli stati occupati, la penetrazione economica, l’italianizzazione forzata delle zone annesse, la collaborazione, la repressione, gli internamenti dei civili, la «questione dei rifugiati» e la cosiddetta «questione ebraica».

Secondo Rodogno, le occupazioni fasciste furono ambigue, perché oscillarono tra le occupazioni militari classiche e le conquiste imperiali3, ma furono ideologicamente imparentate con quelle naziste, sebbene fossero state nella loro fase attuativa assai meno radicali.

Nel caso specifico delle occupazioni nei Balcani, un ruolo molto importante fu giocato dal razzismo fascista, soprattutto nei confronti delle popolazioni slave. Un secondo aspetto da sottolineare è il fatto che i metodi di repressione attuati si ispirarono a quelli utilizzati nell’esperienza coloniale in Africa, dove per la prima volta i militari italiani avevano sperimentato deportazioni e internamenti di massa. Infine, non si possono comprendere appieno le occupazioni nei Balcani senza tenere conto del loro scopo politico: esse, infatti, furono volte alla «sbalcanizzazione» e alla «bonifica etnica», nel quadro più generale di un’«imminente colonizzazione italiana4». In questo senso, si può vedere come il fascismo mirasse alla costruzione di una nuova configurazione geopolitica del Mediterraneo, esemplificata da espressioni come «nuova civiltà», «nuovo ordine»,«comunità imperiale5», e si può capire, dunque, quanto lo studio delle politiche di occupazione sia imprescindibile nell’esame della storia del regime fascista, dell’Italia e della Seconda guerra mondiale.

Il volume di Gianni Oliva «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43 ripercorre le pagine poco note dell’Italia imperiale, anche grazie all’utilizzo di documenti inediti, provenienti dagli archivi dell’Ufficio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito: in appendice, per esempio, è riportata la versione integrale della «Circolare 3 C6», uno dei documenti più importanti per comprendere la politica repressiva fascista nei Balcani.

Oliva riflette sui meccanismi psicologici di “rimozione delle colpe” e di “rielaborazione della memoria nazionale”, mettendo in rilievo l’importanza assunta in questi due processi dallo stereotipo degli «italiani brava gente»:

Ad assicurare il meccanismo della rimozione delle colpe è intervenuto lo stereotipo rassicurante e assolutorio degli «italiani brava gente», un’autorappresentazione collettiva sedimentata nella coscienza nazionale. […] Secondo questo modello, il soldato italiano è fondamentalmente buono, saldamente ancorato ai valori della famiglia, persino un po’ «mammone»; come tale egli non è capace di violenza contro gli inermi, non si accanisce nelle rappresaglie, non si abbandona alle sopraffazioni brutali della guerra7. […]

Inadeguati e fuorvianti per comprendere il passato, i miti e gli stereotipi sono però utilissimi per capire l’epoca nella quale sono stati prodotti: la rielaborazione della memoria è infatti l’atto costitutivo di una generazione, […] In questo senso «italiani brava gente» è un tassello centrale nella ricostruzione del passato nazionale, quale va definendosi negli anni compresi tra la caduta del fascismo e la promulgazione della Costituzione repubblicana8.

Dal momento che la Jugoslavia fu uno dei paesi maggiormente coinvolti nella vicenda dei crimini di guerra italiani, ho utilizzato il saggio a cura di Costantino di Sante Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), per presentare in maniera sintetica alcuni momenti salienti del dibattito tra il governo di Tito e le autorità italiane, a proposito della questione dell’estradizione e della punizione dei criminali di guerra italiani. Il testo mette a disposizione del lettore una ricca documentazione ufficiale9, ricavata dall’Archivio Centrale dello Stato, dall’Archivio del Ministero degli Affari Esteri e dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito.

Elena Aga Rossi e Maria Teresa Giusti hanno recentissimamente offerto una storia complessiva della vicenda dei militari italiani nei Balcani in Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945, «con l’intento di restituire alla memoria nazionale una guerra che è stata frequentemente rimossa dalle ricostruzioni di quegli anni e considerata una guerra “a parte”10». Il lavoro di ricerca si basa su un’ampia mole di documenti d’archivio, provenienti in gran parte dall’Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell’Esercito11. Di questo volume, che è strutturato in due blocchi (dedicati, rispettivamente, alla ricostruzione della fase antecedente all’armistizio dell’8 settembre e alla ricostruzione della fase successiva ad esso), ho utilizzato l’ultima parte, relativa alla questione della mancata punizione dei criminali di guerra italiani.

Secondo Rossi e Giusti, la vicenda dei crimini di guerra italiani costituisce un esempio della mancanza di volontà da parte dei governi italiani dell’epoca di fare i conti con il proprio passato12.

La questione della punizione dei criminali di guerra italiani venne affrontata per la prima volta ufficialmente il 29 settembre del 1943, quando Badoglio e Eisenhower firmarono a Malta il cosiddetto Long Armistice. L’articolo 29 del trattato stabiliva, infatti, che

Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovano sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando Militare Alleato o dal Governo Italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite. Tutti gli ordini impartiti dalle Nazioni Unite a questo riguardo verranno osservati13.

Un ulteriore passo in avanti nell’affrontare il problema fu rappresentato, il 20 ottobre dello stesso anno, dalla costituzione a Londra, su iniziativa degli anglo-americani, della United Nations War Crimes Commission (UNWCC). Questa struttura multinazionale, a cui aderirono 17 paesi, aveva funzioni puramente consultive ed era destinata a ricevere le liste dei presunti criminali di guerra14, successivamente raccolte nel Central Register of War Criminals and Security Suspects (CROWCRASS). Benché l’UNWCC non fosse un organo di giudizio, tuttavia la sua creazione fu una tappa fondamentale nella discussione internazionale in merito ai crimini di guerra, poiché per la prima volta in seno a una struttura multinazionale si pose il problema della punibilità.

Alla costituzione dell’UNWCC seguì il 30 ottobre la Conferenza di Mosca, nella quale i ministri degli Affari Esteri degli Stati Uniti, della Gran Bretagna e dell’Unione Sovietica fissarono in una dichiarazione congiunta in sette punti la politica degli Alleati verso l’Italia: il punto 7 prevedeva «l’arresto e la consegna alla giustizia dei capi fascisti e generali dell’esercito riconosciuti o sospettati per essere criminali di guerra15».

Vittorio Ambrosio

Vittorio Ambrosio

In questa atmosfera emerse la questione relativa a due dei maggiori esponenti della classe dirigente militare italiana, i generali Vittorio Ambrosio e Mario Roatta, rispettivamente, capo di Stato Maggiore delle Forze Armate e capo di Stato Maggiore dell’Esercito: la conferma nei loro incarichi dopo l’8 settembre suscitò le proteste del movimento di liberazione jugoslavo del maresciallo Tito, che accusò i due generali di aver ordinato rappresaglie contro i civili, deportazioni nei campi di concentramento e saccheggi di villaggi durante l’occupazione italiana della Slovenia e della Dalmazia, quando si erano avvicendati al comando della 2°Armata. Nonostante il segretario generale del Ministero degli Esteri Renato Prunas si fosse subito attivato per difendere la posizione dei due generali, appellandosi al carattere intricato e complesso della situazione jugoslava, tuttavia il 18 novembre le pressioni di Londra e Washington spinsero il governo Badoglio a decidere l’allontanamento dei due più alti responsabili militari, i quali, però, non furono messi sotto inchiesta per i delitti loro imputati.

Tra i paesi che avevano subito l’aggressione fascista, la Jugoslavia fu quello che maggiormente perseverò nel tentativo di avere giustizia: in questa direzione, infatti, si deve leggere l’istituzione, all’inizio del 1944, della «Commissione di Stato per l’accertamento dei misfatti compiuti dagli occupatori e dai loro coadiutori16», con il compito di raccogliere informazioni sui crimini compiuti da italiani, tedeschi, ustascia e cetnici e di inviare le liste dei presunti criminali di guerra all’UNWCC. Le accuse mosse contro i militari italiani erano molteplici17.

Per contrastare in sede diplomatica le richieste jugoslave, le autorità italiane misero a punto una strategia che adottarono anche in seguito, nei confronti delle richieste avanzate da altri paesi: cioè, affidarono all’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore del Regio Esercito il compito di raccogliere un’adeguata documentazione difensiva, sotto il coordinamento del Maggiore Domenico Lo Faso.

La sintesi dell’attività di raccolta della contro-documentazione furono le «Note relative all’occupazione italiana in Jugoslavia18», redatte nell’estate del 1945 con il corredo di una sessantina di fotografie. Il documento era volto a «contrastare la vasta campagna propagandistica», tendente a «macchiare d’infamia tutto il comportamento delle forze di occupazione italiane in Jugoslavia», e a «mettere in luce l’ambiente nel quale le forze armate italiane hanno dovuto vivere e operare19»; tuttavia, esso non fu solo un memoriale di difesa, ma costituì anche un atto di accusa nei confronti delle formazioni partigiane. In sintesi, venivano sottolineati quattro aspetti:

  1. la feroce conflittualità etnica interna al contesto jugoslavo, cui si attribuiva la responsabilità di ogni successiva degenerazione;
  2. il ruolo pacificatore svolto dal Regio esercito e il soccorso prestato alle popolazioni colpite;
  3. la demonizzazione dei ribelli, considerati perlopiù banditi, che operavano a livello individuale e che solo tardivamente raggiunsero forme embrionali di organizzazione; tratto distintivo dell’esperienza ribellistica fu la ferocia, esercitata non solo nei confronti dei soldati italiani, ma degli stessi civili jugoslavi;
  4. il rispetto da parte delle truppe italiane dei limiti previsti dalle norme internazionali di guerra.

Anche la Grecia si attivò per richiedere i militari italiani che si erano macchiati di crimini di guerra. Nel giugno 1945, infatti, venne istituito l’Ufficio nazionale ellenico per i criminali di guerra, che stilò una lista dei presunti criminali da inviare all’UNWCC. Tra i nominativi elencati, figurava quello del generale Carlo Geloso, che, comandante dell’11°armata, aveva emanato la circolare del 3 febbraio 1943, che estendeva la responsabilità degli attacchi partigiani alle collettività, autorizzando di fatto le rappresaglie sui civili. Sulla base di quella direttiva, furono compiute vere e proprie stragi di civili, come quelle di Domenikon20, Tsaritsani, Domokos, Farsala e Oxinia. Tra gli altri nominati, vi erano il generale Giovanni Del Giudice, accusato di avere mandato 120 greci davanti alla corte marziale (39 erano stati fucilati e gli altri deportati) e di aver autorizzato torture durante gli interrogatori dei partigiani; il colonnello Aldo Venieri, accusato di abusi e violenze contro ragazze e donne greche, e il colonnello Giuseppe Berti, arrestato dai partigiani con l’accusa di aver partecipato alla rappresaglia che seguì l’attentato del Gorgopotamos e alla strage di Domenikon.

Dopo le prime condanne ai militari italiani nel 1945, il governo italiano si allarmò, temendo che i processi greci potessero innescare aspettative anche da parte della Jugoslavia e dell’Albania. Il rischio era che si finisse per porre l’Italia sullo stesso piano della Germania, annullando i vantaggi che ci si aspettava di ottenere dalla cobelligeranza e da quanto stabilito al punto 7 dalla Dichiarazione di Mosca.

Di fronte alle richieste greche le autorità italiane si attivarono come avevano fatto per la Jugoslavia, allo scopo sia di evitare ulteriori processi, sia di ottenere l’annullamento delle condanne già emanate dai tribunali greci: nel maggio 1945 l’Ufficio informazioni dello Stato Maggiore dell’Esercito raccolse le testimonianze di ufficiali italiani che denunciavano violenze commesse dai partigiani greci contro gli italiani (per ribaltare le accuse così come si stava facendo per la Jugoslavia e al contempo giustificare le reazioni dei militari italiani). Inoltre, il Ministero degli Esteri, così come aveva fatto per la Jugoslavia, produsse la documentazione in cui si elencavano gli aiuti prestati alla popolazione locale, evidenziando il differente comportamento delle truppe italiane rispetto a quelle tedesche.

Alla fine del dicembre del 1945, l’UNWCC inviò al Governo di Roma la lista dei presunti criminali da estradare e sottoporre al processo: complessivamente si trattava di 1857 incriminazioni, di cui 997 per i crimini contro i civili21.

Sin dall’ottobre del 1943 le autorità italiane adottarono una strategia per impedire l’estradizione dei connazionali accusati di crimini di guerra. La preoccupazione del governo italiano era per i risvolti politici della vicenda: permettere le estradizioni avrebbe dato dell’Italia l’immagine di un paese vinto, perché solo i vinti vengono processati per le atrocità commesse.

Uno degli elementi di questa strategia fu una riduttiva interpretazione giuridica dei principi emanati dalle Nazioni Unite e dagli Alleati; per esempio, relativamente al punto 7 della “Dichiarazione sull’Italia” elaborata durante la Conferenza di Mosca, Giovanni Messe22 sostenne che gli Alleati, in virtù del passaggio dell’Italia, dopo l’8 settembre del 1943, da paese alleato con l’Asse a paese cobelligerante, avevano elaborato una diversa formulazione di trattamento per italiani e tedeschi, per cui l’espressione di «consegna alla giustizia» doveva essere interpretata più estensivamente nel senso di consegna «alla giustizia italiana23». Per i criminali di guerra tedeschi – proseguiva Messe – era previsto un trattamento diverso: infatti, la “Dichiarazione sulle atrocità24” proclamava esplicitamente che i criminali di guerra tedeschi dovessero essere tradotti nei paesi in cui avevano commesso i crimini.

La strategia messa in atto dalle autorità italiane fu supportata dalla complicità degli Alleati, soprattutto della Gran Bretagna, la quale, vista la posizione di nazione cobelligerante nella quale si trovava l’Italia, era dell’avviso di rinviare la questione della punizione dei criminali di guerra alla fine delle ostilità.

Grazie a questi accorgimenti politici e diplomatici, il governo italiano riuscì nell’intento di bloccare le prime richieste di estradizione da parte jugoslava, avvenute nel febbraio 1945.

Un successivo tassello della «tattica del rinvio25» dei processi ai criminali di guerra italiani fu rappresentato nell’aprile del 1946 dalla costituzione di una Commissione d’Inchiesta per i crimini di guerra italiani26. Ufficialmente, questa Commissione venne istituita per indagare sul «comportamento degli organi militari e civili dello Stato italiano nei territori occupati di oltre confine onde proporre gli opportuni provvedimenti a sensi di legge27»; di fatto, però, la sua principale ragione d’esistenza era quella di convincere gli Alleati delle serie intenzioni da parte italiana di celebrare i processi degli accusati, evitando così le estradizioni richieste. Al tempo stesso, essa sarebbe servita a guadagnare tempo rispetto alle richieste che gli altri paesi avevano inoltrato all’UNWCC.

La strategia adottata dall’Italia per evitare l’estradizione dei propri connazionali fu messa in discussione dal Trattato di Pace, firmato il 10 febbraio 1947 a Parigi, il cui articolo 45 stabiliva che l’Italia dovesse assicurare l’arresto e le consegna dei criminali di guerra:

L’Italia prenderà tutte le sue misure necessarie per assicurare l’arresto e la consegna al fine di un successivo giudizio:

a) delle persone accusate di aver commesso od ordinato crimini di guerra e crimini contro la pace e l’umanità, o di complicità in siffatti crimini;

b) dei sudditi delle potenze alleate od Associate, accusati di aver violato le leggi del proprio paese, per aver commesso atti di tradimento o di collaborazione con il nemico durante la guerra28.

Campo di concentramento di Arbe (attuale Croazia)

Campo di concentramento di Arbe (attuale Croazia)

Nell’ottobre 1947, il governo di Tito protestò presso gli Alleati per la mancata consegna dei criminali italiani e giudicò inaccettabile il fatto che la quasi totalità di essi fosse ancora in stato di libertà e che alcuni di loro rivestissero importanti cariche militari29. Nel dicembre dello stesso anno, la Jugoslavia, con quattro note ufficiali, richiese 27 presunti criminali di guerra che, in applicazione all’articolo 45 del Trattato di Pace, venivano accusati di «crimini contro la pace e l’umanità».

Nel frattempo, la Commissione, raccolta un’abbondante documentazione sul conto delle persone accusate, nel gennaio del 1948 procedette a deferire alle autorità competenti 26 persone, sul cui conto erano state riscontrate prove relative alle accuse di crimini di guerra. Sembrò che i processi si sarebbero celebrati, ma nuovi problemi sorsero a bloccare il corso della giustizia: innanzitutto, si evidenziò il rischio che il dibattimento si trasformasse in un “processo contro gli jugoslavi”, minando i rapporti diplomatici appena ristabiliti tra Italia e Jugoslavia; in secondo luogo, era diffuso il timore che gli alti ufficiali, membri dei tribunali militari, si sarebbero rifiutati di esprimere giudizi di colpevolezza nei confronti degli imputati, creando un certo imbarazzo verso le autorità jugoslave. Inoltre, vennero sollevate altre due questioni, una di natura interna e una di natura internazionale; per quanto riguarda la prima questione, si riteneva che l’immediato inizio dei processi avrebbe diviso la stampa e l’opinione pubblica italiana in due campi opposti, con gravi conseguenze di ordine interno (anche in vista delle imminenti elezioni politiche) e di ordine internazionale; la seconda questione, invece, aveva a che fare con i processi contro i presunti criminali di guerra tedeschi istituiti dai tribunali italiani: poiché le accuse mosse ai tedeschi erano analoghe a quelle che gli jugoslavi muovevano contro gli imputati italiani, si sarebbe creata una situazione alquanto imbarazzante, sia per i tribunali italiani, sia per i riflessi internazionali che l’andamento dei processi avrebbe potuto comportare.

Del resto, la questione dell’intreccio con i crimini di guerra nazisti perpetrati sul suolo italiano si era presentata con vigore già al termine della Seconda guerra mondiale: come all’inizio del 1946 aveva osservato Pietro Quaroni, ambasciatore italiano in Unione Sovietica, se l’Italia avesse preteso l’estradizione dei tedeschi accusati di aver commesso crimini di guerra sul suolo italiano, essa avrebbe dovuto, a sua volta, permettere l’estradizione dei militari italiani accusati di aver commesso crimini di guerra nei territori occupati, con conseguenze negative per l’immagine dell’Italia, alla vigilia del Trattato di Pace. Di conseguenza, il governo italiano preferì accettare un «baratto della giustizia e della memoria30», cioè decise di rinunciare a far luce sui crimini nazisti in Italia per non dover far luce sulle responsabilità italiane del 1941-43.

Il tempo e il quadro internazionale lavorarono a favore del governo italiano: l’evolversi della situazione internazionale, con la contrapposizione tra i due blocchi dell’Est e dell’Ovest, e il disimpegno degli anglo-americani, che avevano soddisfatto le proprie esigenze punitive con i processi celebrati direttamente nella penisola dai tribunali italiani, spinsero la diplomazia italiana ad un’azione serrata nel corso del 1947 per ottenere la rinuncia all’applicazione dell’articolo 45.

A partire dall’estate del 1948, con la rottura tra Stalin e Tito, il governo di Belgrado perse il suo più autorevole sostenitore e, di conseguenza, cessò ogni azione di Tito per ottenere la consegna dei presunti criminali di guerra italiani31.

Quanto alla Grecia, dopo il ritorno della monarchia, la questione della punizione dei crimini di guerra fu definitivamente abbandonata: dalla fine del 1947, infatti, dopo aver riesaminato i processi degli italiani conclusi con condanne, la Grecia decise di scarcerarli o di concedere loro la grazia. Sia il quadro internazionale sia la necessità di concludere accordi commerciali con l’Italia portarono il governo greco alla firma di un accordo segreto, con cui Atene metteva fine al problema dei crimini di guerra rinunciando a qualsiasi richiesta di estradizione.

La conclusione della vicenda era vicina. Nel 1949, pur essendo 39 i deferiti alla Procura Militare, i processi non erano ancora stati avviati. Nel giugno 1950, gli avvocati difensori degli imputati avanzarono un’eccezione procedurale (non presente nell’articolo 45 del Trattato di Pace), chiedendone l’immediato proscioglimento: in base all’articolo 165 del codice penale militare di guerra italiano, che prevedeva la “reciprocità” per i crimini commessi in altri paesi, la procedibilità verso i criminali italiani poteva essere garantita solo se la Jugoslavia avesse giudicato i responsabili degli eccidi delle foibe. In mancanza di “reciprocità” da parte della Jugoslavia, si poteva procedere all’assoluzione: l’eccezione venne accolta e nel corso del 1951 tutti i procedimenti a carico dei presunti criminali furono archiviati, mettendo la parola fine sull’intera vicenda e sull’esistenza stessa della Commissione:

In conclusione, delle centinaia di civili e militari italiani posti sotto accusa per i crimini di guerra, i soli a essere condannati e puniti furono quei pochi catturati e giudicati direttamente nei paesi vittime dell’aggressione fascista e coloro che furono processati dagli Alleati in Italia per delitti commessi contro i prigionieri di guerra32.

Laura Bordoni

La questione dei crimini di guerra italiani nei Balcani ultima modidfica: 2014-01-10T17:55:46+01:00 da Laura Bordoni
BIBLIOGRAFIA

GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco» I crimini di guerra italiani 1940-43. Milano, Mondadori, 2006

DAVIDE RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, pp. 19-27, 397-415

E. AGA ROSSI, M.T. GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945. Bologna, il Mulino, 2011, pp. 9-18, 427-445

Italiani senza onore I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), a cura di Costantino Di Sante. Verona, ombre corte, 2005

CITAZIONI E RIFERIMENTI

1. GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco». I crimini di guerra italiani 1940-43. Milano, Mondadori, 2006, pp. 169-70: «[…] studiosi come Filippo Focardi, Carlo Spartaco Capogreco, Luca Baldissarra, Paolo Pezzino, Lidia Santarelli, Lutz Klinkhammer, Costantino Di Sante, Davide Rodogno, lo sloveno Tone Ferenc hanno cominciato ad esplorare inedite documentazioni archivistiche e a svelare realtà sinora taciute».

2. DAVIDE RODOGNO, Il nuovo ordine mediterraneo. Le politiche di occupazione dell’Italia fascista in Europa. Torino, Bollati Boringhieri, 2003, p. 20

3. Rodogno distingue due tipi di occupazione militare: l’occupazione militare classica e quella di tipo napoleonico. La prima fa seguito a una disfatta militare, serve a indebolire l’avversario e non ha per scopo l’assorbimento del territorio occupato nella nazione occupante, né l’assimilazione ad essa. Ha carattere temporaneo e si presuppone finisca con un trattato di pace o con la conclusione del conflitto. Nella seconda, invece, l’occupante proietta sul territorio e sulla società occupata il suo sistema politico, sociale, culturale ed economico.

4. Ivi, p. 401

5. Ivi, p. 22

6. GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco», p. 173-201. In questo documento ufficiale, emanato il 1°marzo 1942, Roatta ordinò di impiegare la massima durezza nella repressione, sintetizzando il trattamento da riservare ai ribelli nella formula «non dente per dente, ma testa per dente». Si specificava, inoltre, che veniva considerato legittimo e non perseguibile un eventuale eccesso di reazione da parte dei militari italiani. La «Circolare 3 C» costituì il punto di riferimento per la successiva strategia di controllo del territorio: ad essa, infatti, si ispirarono i diversi comandi nella condotta delle operazioni contro-guerriglia.

7. Ivi, p. 6

8. Ivi, p. 9

9. Le accuse del Governo di Tito, i memoriali di difesa dello Stato Maggiore dell’Esercito, il memoriale fotografico dell’Ufficio Informazioni dello Stato Maggiore dell’Esercito, la Commissione d’inchiesta italiana.

10. E. AGA ROSSI, M.T. GIUSTI, Una guerra a parte. I militari italiani nei Balcani 1940-1945. Bologna, il Mulino, 2011, p. 9

11. Nello specifico, sono risultate di particolare importanza le relazioni degli ufficiali redatte al momento del loro rientro in Italia per dare conto del loro comportamento successivo all’8 settembre.

12. E. AGA ROSSI, M.T. GIUSTI, Una guerra a parte, p. 9

13. Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1951), a cura di Costantino Di Sante. Verona, ombre corte, 2005, p. 13

14. Il Gabinetto di Guerra britannico aveva deciso che i processi ai criminali di guerra avrebbero riguardato i reati commessi nel corso della Seconda guerra mondiale; escluse, dunque, i crimini commessi dall’Italia durante la guerra d’Etiopia. Tuttavia, successivamente, grazie ad una clausola del Trattato di Pace (10 febbraio 1947, Parigi), si riconobbe che tra Italia ed Etiopia c’era stato un ininterrotto stato di guerra dal 3 ottobre 1935 al 10 febbraio 1947 e, quindi, il governo etiope poté inviare alla Commissione nel maggio 1948 una lista di dieci presunti criminali di guerra. Tra questi, figuravano il maresciallo Pietro Badoglio e il maresciallo Rodolfo Graziani.

15. GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco», p. 28

16. Italiani senza onore, a cura di Costantino Di Sante, pp. 57-107. La Commissione, presieduta da Dusan Nedeljkovic, stese quattro relazioni, relative ai misfatti compiuti rispettivamente in Dalmazia, Montenegro (a cui sono dedicate la seconda e la terza relazione), Slovenia.

17. Esecuzioni sommarie, incendi di villaggi, razzie di bestiame e oggetti di valore, saccheggi, stupri, rastrellamento di civili e loro invio nei campi di internamento, torture perpetrate contro i prigionieri e i sospetti per avere informazioni sulle attività partigiane; altre denunce, infine, riguardavano l’attività dei tribunali militari, istituiti al momento dell’occupazione quando sul territorio vennero estese le disposizioni del diritto di guerra italiano.

18. Ivi, p. 171-204

19. Ivi, p. 171

20. Nel piccolo villaggio di Domenikon, 150 civili furono fucilati dalla Divisione fanteria “Pinerolo” per rappresaglia, in seguito a un attacco partigiano che il 16 febbraio 1943 aveva provocato la morte di nove militi italiani delle camicie nere. L’evento, per molto tempo dimenticato, è stato ricostruito nel documentario televisivo “La guerra sporca di Mussolini”, andato in onda per la prima volta il 14 marzo del 2008 su History Channel.

21. 729 nominativi furono indicati dalla Jugoslavia, 142 dall’Albania, 111 dalla Grecia, 863 dagli Alleati. A questi andavano aggiunti 12 militari di cui l’Unione Sovietica, non aderendo all’UNWCC, aveva inoltrato richiesta diretta a Roma nel luglio del 1944.

22. Allora Capo di Stato Maggiore.

23. Ivi, p. 16

24. La “Dichiarazione sulle atrocità” commesse dalle truppe hitleriane fu concordata nella stessa Conferenza di Mosca dal presidente Roosevelt e dai primi ministri Stalin e Churchill.

25. GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco», p. 137

26. Italiani senza onore, a cura di Costantino Di Sante, pp. 213-240

27. Ivi, p. 215

28. Ivi, p. 27

29. Fra i casi più clamorosi: Paride Negri, G. Pedrazzoli, Orlando Taddeo, Alessandro Pirzio Biroli, Antonio Marotta, Francesco Giunta, Mario Robotti, Mario Roatta.

30. Ivi, p. 24

31. Lo stesso avvenne da parte dell’Albania che, non avendo stabilito relazioni diplomatiche con l’Italia, aveva presentato le proprie richieste tramite la propria legazione nella capitale jugoslava.

32. GIANNI OLIVA, «Si ammazza troppo poco», p. 162

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