Etimologia del termine
Il termine «prigione» deriva dal verbo latino prehendo (prĕhendo, prĕhendis, prehendi, prehensum, prĕhendĕre)[1] che è tradotto con catturare ed è utilizzato soprattutto con riferimento a prigionieri.
Il primo significato che si trova nel dizionario Sabatini-Coletti è di «luogo o situazione materialmente o moralmente opprimente e che perciò ricorda il carcere» a questo significato si può aggiungere l’indicazione di un «luogo adibito alla custodia dei condannati, che espiano la pena o degli imputati nell’attesa di giudizio» e di «stanza buia e stretta» riportate nel vocabolario etimologico DELI, che, inoltre, fa riferimento al luogo pubblico dove sono tenuti serrati gli accusati e coloro che, vinti in guerra, sono in potere del vincitore. L’utilizzo del termine è specifico per chi è catturato durante delle operazioni di guerra o coloro che sono condannati e reclusi per crimini politici. Il significato e il particolare utilizzo si mantengono anche nei lemmi derivati come prigionia.
Il termine nel tempo non ha subito una variazione di significato ed è attestato con questo significato già nel 1282, nella variante preson,a Venezia e viene utilizzato da Boccaccia, Dante e Petrarca[2].
Il lemma è in senso specifico legato ad operazioni di guerra e alla cattura e detenzione di persone che sono militari. Questo primo e ristretto significato, va ad integrarsi anche con il significato di prigioniero, inteso come vittima di sequestri, o simili, ed è accostato all’aggettivo politico, quando la condanna giudiziaria è legata a questioni ideologiche.
Cambiamenti nella funzione della prigione
Se il significato nel tempo non ha subito variazioni, il modo in cui i prigionieri sono trattenuti ha subito diverse trasformazioni.
Da luogo in cui i condannati attendevano la propria pena, in molti casi capitale, la prigione divenne nel XVIII secolo un luogo in cui si realizzava una condanna senza supplizio e in cui la legge potesse essere punitiva e non vendicativa. L’uomo nel periodo dei Lumi fu posto come limite del diritto e come frontiera legittima del punire.
Lungo tutto il XVIII secolo, all’interno e all’esterno dell’apparato giudiziario, nella pratica penale quotidiana come nella critica alle istituzioni, viene formandosi una nuova strategia per l’esercizio del potere di castigare. E la «riforma» propriamente detta, quale viene formulata nelle teorie del diritto schematizzata nei progetti, è la ripresa politica o filosofica di questa strategia, con i suoi obiettivi primari: fare della punizione e della repressione degli il legalismi una funzione regolare, suscettibile d estendersi a tutta la società; non punire meno, ma punire meglio; punire con una severità forse accentuata, ma per punire con maggior universalità e necessità; inserire nel corpo sociale, in profondità, il potere di punire. (Foucault, 1976, p. 89).
Un modello punitivo segreto si sostituì al modello pubblico. La punizione ideale è considerata il trasparente del crimine che sanziona; così, per colui che contempla, sarà infallibilmente il segno del delitto, la sola idea del misfatto dovrebbe risvegliare il segno punitivo. Si cercano pene che rappresentino nella loro forma il contenuto del crimine, la cella, quindi, va a sostituire il grande impianto scenico della pena pubblica che aveva dominato fino al XVIII secolo.
In poco tempo la detenzione divenne la forma essenziale del castigo; anche se molti si lamentarono del fatto che tutti i crimini erano puniti con una reclusione e non vi era più varietà di pene, caratteristica che aveva contraddistinto i secoli precedenti. Nel codice penale francese del 1810, tra la morte e le ammende, la prigione occupa quasi tutto il campo delle possibili punizioni. I lavori forzati sono una forma di carcerazione; il bagno penale è una prigione all’aperto; la detenzione, la reclusione, l’incarceramento correzionale non sono, in qualche modo, che i nomi diversi di un solo medesimo castigo.
Fino all’inizio dell’ottocento la prigione aveva una posizione ristretta nel sistema penale ed era in pratica assente nelle leggi precedenti. La prigione perpetua o temporanea figura solo sporadicamente nei diritti consuetudinari antecedenti il XIX secolo ed era stata preservata per sanzioni meno gravi, a discrezione delle consuetudini, delle abitudini locali o del sovrano (attraverso l’attribuzione di lettres de cachet), soprattutto quest’ultimo caso rappresentava la specifica più accusata dai rivoluzionari francesi perché più soggetta all’arbitrio del re.
Fino al XIX secolo si segue l’adagio latino ad continendos homines, non ad puniendos, il suo ruolo è di costituire una presa di garanzia sulla persona e sul suo corpo, l’imprigionamento di un prigioniero ha lo stesso ruolo di quello di un debitore. La prigione era considerata un modo per assicurarsi di trovare qualcuno più che un modo per punirlo e per lungo tempo sostituì la galera per donne, bambini e invalidi.
Modelli storici di prigione
Si costituiscono con il passare del tempo 4 modelli: Amsterdam (1594), Gand (1794), Inglese o di Hanway (1775), Filadelfia (1790). La teoria che sta dietro a questi modelli è che la prigione ricrea, in forme maggiormente costrittive, la società. Questi modelli hanno come riferimenti il monastero e i concetti di clausura e penitenza, a cui si aggiungono la fabbrica e il concetto di homo œconomicus e la sua ricostituzione nel reo insieme alla moralità.
Le caratteristiche comuni ai modelli sono:
1) L’isolamento, nei confronti del mondo esterno e dei compagni con vari gradi di severità.
2) Il lavoro, con lo stipendio come variabile.
3) Il controllo del tempo del prigioniero, in cui lo stato, attraverso l’istituzione della prigione controlla il prigioniero in ogni momento della sua vita, che è inquadrata secondo un impiego del tempo rigoroso, sotto una sorveglianza ininterrotta.
Questi elementi tutti insieme sono usati, insieme con una continua e forzata riflessione spirituale ad una forte divisione in ranghi ed una particellazione dello spazio, servono ad ottenere, alla fine del lungo periodo di reclusione, un uomo migliore, dallo spiccato senso morale, che abbia appreso un lavoro e che conosca il senso del denaro.
Tutto questo sfocia nel concetto di “panoptismo” applicato nella struttura architettonica del “panopticon” di Bentham, una costruzione ad anello con al centro una torre tagliata da larghe finestre che si aprono verso la facciata interna dell’anello. La costruzione periferica è divisa in celle che occupano ciascuna tutto lo spessore della costruzione, esse hanno due finestre l’una verso l’interno che corrisponde alla finestra nella torre, l’altra verso l’esterno permette alla luce di attraversare la cella da parte a parte. Tante gabbie in cui il singolo è solo e perfettamente individuabile e sempre visibile. Il prigioniero in questa struttura è visto, ma non vede. Il “panopticon” è una struttura in cui la prigionia raggiunge la sua perfezione formale, spesso considerata un’utopia, in cui si può controllare chiunque da un singolo punto.
Una nuova categoria di detenuto: il prigioniero di guerra
La prima esperienza di prigionia su scala mondiale fu durante la prima guerra mondiale. La questione era stata affrontata, a livello d’accordi internazionali, nella seconda metà dell’ottocento, in rapporto alle guerre coloniali e aveva portato, oltre alla costituzione della croce rossa internazionale, alla firma di una serie di convenzioni (Ginevra 1864 e 1906, Aja 1899 e 1907) in cui 14 stati avevano sottoscritto un insieme di norme riguardanti i diritti e i doveri delle potenze nei confronti dei prigionieri. Questi accordi però non furono mai messi alla prova in maniera considerevole. Con la prima guerra mondiale fu evidente che queste norme erano insufficienti a risolvere i problemi che gli stati dovevano affrontare e si dovette all’intervento degli stati neutri se si riuscì a far mettere d’accordo i governi belligeranti a favore dei prigionieri.
Nel 1914, a Ginevra, si costituì “Agence internazionale de secours et renseignement en faveur des prisonniers de guerre”, in cui aderirono tutti i paesi belligeranti, questo fu uno dei maggiori canali di comunicazione tra gli stati. L’articolo che creò maggiori problemi fu il settimo della convezione dell’Aja del 1907[3]/[4]. A questo articolo si appellò lo Stato italiano mentre Inghilterra e Francia, che presero l’incarico direttamente dei propri prigionieri in altre nazioni, attraverso la mediazione dei paesi da cui erano stati catturati, per l’invio di aiuti collettivi. Già dai primi mesi della guerra venne anche concordato lo scambio di dei prigionieri: alcuni feriti gravi e malati poterono fare ritorno nel proprio paese.
A partire dalla metà del 1917, grazie alla spinta dell’opinione pubblica a cui arrivavano le notizie delle disastrose condizioni in cui vivevano i prigionieri, si ricreò un’ulteriore intesa che rese possibile lo scambio tra combattenti validi.
Le condizioni dei prigionieri italiani non furono mai buone. Lo stato italiano solo alla fine della guerra iniziò ad inviare aiuti in via sperimentale; durante il periodo della belligeranza lo stato mantenne rigide disposizioni sui pacchi e il loro contenuto, che dovevano essere spediti al fronte e ai prigionieri[5]. Il contenuto di molti dei pacchi si guastava poiché arrivava nei luoghi di prigionia dopo molto tempo a causa della rigida censura.
Le condizioni nei campi erano pessime. I luoghi di prigionia erano, all’inizio della guerra, caserme, castelli, conventi, fabbriche in disuso, grandi strutture in muratura, ma dopo Caporetto il numero di prigionieri aumentò esponenzialmente, vennero create campi di prigionia con baracche in legno. Questi campi potevano ospitare dalle poche migliaia fino a diverse decine di migliaia di persone, vere e proprie città di prigionieri. Chi veniva catturato veniva imprigionato in campo o in un altro in base al suo grado, i soldati semplici erano obbligati al lavoro e non ricevevano uno stipendio, al contrario degli ufficiali che non erano tenuti a lavorare, ma che ricevevano uno salario.
Paolo Dinaro
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