Introduzione
Durante il convegno «La Repubblica sociale italiana 1943-1945», tenutosi a Brescia il 4 e il 5 ottobre 1985, lo storico Claudio Pavone introdusse il concetto di «guerra civile» in relazione alla guerra che si combatté nella penisola italiana dopo l’8 settembre del 1943 e alla lotta resistenziale.
La chiave di lettura proposta da Pavone suscitò accese polemiche, creando in seno al dibattito storiografico una frattura tra coloro che si dichiararono favorevoli all’utilizzo di quella categoria e coloro che se ne dichiararono contrari.
Le Tre guerre
Riprendendo la questione ne Le tre guerre: patriottica, civile e di classe1 Pavone precisò innanzitutto che fosse sbagliato impostare una specie di referendum pro o contro la tesi della guerra civile; piuttosto, al fine di una comprensione più articolata e profonda del fenomeno resistenziale, era necessario approfondire l’analisi storica, articolare ricerche e giudizi, farsi carico delle nuove domande che i tempi ponevano.
Pavone suggerì di analizzare la Resistenza seguendo il criterio delle «tre guerre2» – guerra patriottica, civile e di classe – le quali non dovevano essere percepite come distinte l’una dall’altra, data la loro possibile compresenza nei soggetti, individuali o collettivi, che combattevano:
Il criterio delle «tre guerre» attraversa orizzontalmente la realtà resistenziale, e cerca di individuare elementi che, in misura e combinazioni diverse, sono presenti in più formazioni, se non sempre in tutte, e sono entrati a far parte di quello che si potrebbe chiamare il senso comune resistenziale. […] Si tratta comunque di una distinzione di carattere analitico e non pretende di individuare soggetti distinti che, ognuno per proprio conto, abbia combattuto una ed una sola delle tre guerre3.
Distinte sono le figure del nemico che si affrontano nelle tre guerre: nella patriottica, il tedesco; nella civile, il fascista; in quella di classe, il padrone.
Nella guerra patriottica, il tedesco può essere considerato sotto profili diversi: come mero straniero invasore, come tradizionale avversario del Risorgimento e della «quarta guerra dell’indipendenza» combattuta nel ’15-’18; come eterno barbaro teutonico; come nazista. Intendendo il tedesco in quest’ultimo senso, la guerra patriottica è anche guerra civile, intesa come “grande guerra civile europea”. Quest’ultima si caratterizza per due aspetti fondamentali: lo scontro tra i popoli e la rivendicazione da parte di ciascuno di essi di essere portatore di un messaggio esclusivo ed universale; la presenza all’interno di ciascuno popolo di cittadini che parteggiano per il nemico esterno.
Quanto alla guerra contro il fascista, l’impiego della categoria di guerra civile è legittimato sia dal fatto che il fascista fosse figlio (benché ritenuto degenere) della stessa terra; sia dal fatto che nel biennio ’43-’45 si fosse spezzato il monopolio statale della violenza: infatti, le istituzioni tradizionalmente unificanti barcollarono e l’identità nazionale stessa venne messa in discussione.
Il rifiuto da parte di alcuni storici della categoria di guerra civile scaturisce principalmente da due considerazioni: la prima consiste nel fatto che, dal momento che l’espressione di guerra civile è stata fatta propria dai neofascisti, si pensa che accettare una chiave di lettura di questo tipo equivalga ad assumere una prospettiva revisionistica, nel senso forte e negativo del termine4; la seconda è dovuta alla connessione del concetto di guerra civile con quello di rivoluzione, che genera da sempre paure.
Alla prima opposizione Pavone risponde che, nonostante i neofascisti abbiano assunto la categoria di guerra civile, questo non significa che sia giusto metterla al bando; inoltre la paura che parlare di guerra civile significhi porre sullo stesso piano i fascisti e i resistenti è priva di fondamento, poiché mai come nelle guerre civili le contrapposizioni sono così nette e le avversioni tanto irriducibili. Quanto alla seconda opposizione, Pavone osserva che l’espressione di «guerra di liberazione nazionale», pur essendo stata fatta propria dai movimenti anticolonialisti e antiimperialisti del terzo mondo, non ha subito analoghe e retrospettive censure, probabilmente perché il senso di colpa di fronte a popoli lontani e affamati ha garantito all’espressione una polisemia.
La guerra civile si intreccia con la guerra patriottica, come dimostra l’attestazione presso molte fonti di un dilemma difficile da sciogliere con nettezza e, cioè, se il nemico principale da combattere fosse il tedesco oppure il fascista.
La guerra di classe, infine, si unisce sia alla guerra patriottica, sia soprattutto alla guerra civile.
Mediante il criterio delle «tre guerre», Pavone recupera il significato dell’unità della Resistenza, che è da intendersi «come comune, ma differenziata aspirazione a dar vita a un uomo libero e moralmente non in contraddizione con se stesso, quali che fossero i contenuti, anche molto diversi, con i quali l’immagine del futuro veniva riempita5».
Giorgio Vaccarino in La resistenza come movimento di liberazione o come guerra civile nella cornice europea6, ha innanzitutto premesso che per guerra civile debba intendersi «la lotta armata tra forze di uno stesso paese, comunque organizzate e numericamente significative7»; alla luce di questo, e tenendo conto dell’alto livello a cui era giunta la tensione tra i fascisti e gli anti-fascisti, in Italia dopo l’8 settembre «di uno scontro civile tra italiani per molti aspetti non può non parlarsi8».
Il termine di guerra civile è parso ad alcuni studiosi e politici concettualmente improprio: esso, infatti, sarebbe una definizione riduttiva di un prevalente movimento liberatorio contro l’occupatore straniero e come tale con radici ancora nazional-risorgimentali. Vaccarino evidenzia che i fautori di questa teoria non hanno tenuto conto del fatto che l’occupazione tedesca si fosse presentata sotto un’insegna ideologica del tutto nuova per un invasore e che, per quanto condannabile, aveva trovato sostegno in un seguito di forze italiane, riconoscibili in qualche modo politicamente, anche prima della crisi dello Stato.
La definizione di Resistenza come grande guerra civile europea contro l’inciviltà del blocco nazifascista è riduttiva, perché non tiene conto delle fattispecie nazionali: più correttamente, la Resistenza nei paesi d’Europa non ha «rappresentato un corpo organico di tensioni univoche ma talora un complesso di forze contraddittorie, a seconda dell’idea di liberazione adottata o meglio dell’obiettivo stesso di liberazione perseguito9» (ad esempio, talune manifestazioni di collaborazionismo erano intese, pur nelle loro ambiguità, alla difesa dell’identità nazionale minacciata) . Nello studio dei movimenti di Resistenza europei, sono «quasi ovunque rintracciabili manifestazioni di guerra civile, ove al conflitto liberatorio si siano andati associando, e talvolta sovrapponendo, tensioni violente contro i fautori dell’occupante10». Per esempio, in Francia la lotta contro lo straniero (tedesco) si sovrappose alla guerra civile, combattuta tra i sostenitori del regime collaborazionista di Vichy e le forze partigiane; in Belgio, Norvegia e Olanda, benché si fossero affermati movimenti che si ispiravano al nazismo e al fascismo italiano, tuttavia non si verificò uno scontro civile, perché mancò una forza connazionale di repressione schierata sul campo; in Germania, invece, vi fu una «latente volontà di guerra civile11»: qui, infatti, l’opposizione non giunse mai a una lotta di popolo, ma non si può escludere che nella coscienza morale e politica degli antinazisti più consapevoli vi fosse il progetto di attuare uno scontro civile (ad esempio: «la fallita congiura del luglio 1944, ramificata da Berlino a Parigi e a Vienna, avrebbe potuto promuovere, se Hitler fosse morto davvero, lo scontro dei suoi reparti organizzati contro le forze ancora fedeli al tiranno12». In altri paesi, come la Polonia, la Jugoslavia e la Grecia, la Resistenza mise in luce lacerazioni preesistenti: in Polonia, la lotta di Resistenza fu anomala perché combattuta contro il nuovo ordine imposto dai sovietici, precedentemente alleati; in Jugoslavia, la lotta di liberazione si intrecciò con la guerra civile, combattuta tra i cetnici e i partigiani comunisti; in Grecia vi furono contraddizioni fortissime nella Resistenza, sia nelle forze resistenti tra di loro, sia nella condotta verso di esse dei grandi alleati; qui la guerra civile tra i comunisti e le forze governative si sovrappose alla guerra di liberazione.
Ne La resistenza oggi: problema storiografico e problema civile13 Pavone ricorda che il dibattito sulla guerra civile suscita interesse ed emozione non solo perché rompe un tabù, ma anche perché si presta a due versioni opposte: da un lato, esso tende ad avallare una specie di pacificazione tra le parti, quasi invitando a non parlare più di quel periodo; dall’altro lato, esso può essere una suggestione a non chiudere ma a riaprire il discorso, per ricercare su basi più solide una nuova forma di identità nazionale. In quest’ultimo senso, l’uso della categoria di guerra civile è estremamente vantaggioso, sia perché individua un momento di rottura epocale nella storia del nostro Paese, sia perché consente un più corretto inquadramento del fascismo :
Un paese come l’Italia, privo nella sua storia di nette e incontrovertibili fratture, ha tutto da guadagnare a rivendicare, come tavola di fondazione di una propria rinnovata, non dogmatica, identità, il momento di verità rappresentato dalla guerra tra i fascisti e gli antifascisti. Lo stesso fascismo può ritrovare il proprio spessore storico […] assai meglio nella sua collocazione in questo teso contesto che nelle edulcorate visioni di un regime sfilacciato, bonario, con qualche velleità modernizzante, magari cinico, intessuto di doppi giochi, e perciò consonante con la consolatoria e rassegnata immagine con la quale il popolo italiano ama autorappresentarsi fino a trasformarla quasi in un motivo di compiacimento14.
Un altro vantaggio del dibattito sulla guerra civile è rappresentato dalla possibilità di ampliare il discorso ad aspetti molto importanti: per esempio, alla consistenza numerica degli italiani che presero parte a quella lotta e alle variegate posizioni di questi ultimi.
L’Italia del ’43-’45 era segnata innanzitutto da una frattura geografica, messa in luce da Federico Chabod, nelle lezioni tenute nel gennaio 1950 all’Institut d’études Politiques dell’Università di Parigi: «Sull’Italia si abbatte anche la guerra civile», mentre l’Italia meridionale «non conoscerà – non potrà conoscere – né la guerra partigiana né i vari comitati di liberazione nazionale»: questi nasceranno solo «quando ormai non c’è più nessuna lotta da condurre». É «d’importanza politica essenziale», chiarisce Chabod, che allora vi siano state tre Italie (Sud, Centro, Nord) nelle quali «si svolgono tre differenti esperienze politiche15».
A questa spaccatura se ne aggiungevano altre due, createsi nel centro-nord: quella tra la Resistenza e la Repubblica sociale e quella tra l’insieme degli impegnati in vario modo nella guerra civile e la cosiddetta zona grigia.
Sulla scorta delle riflessioni di Pavone a proposito della guerra civile, Fabio Fabbri ne Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande guerra al fascismo 1918-192116 ha proposto di superare la tradizionale scansione storiografica che vede succedersi nell’Italia del primo dopoguerra un biennio rosso (caratterizzato soprattutto da agitazioni e scioperi operai) e un biennio nero (di reazione e di controrivoluzione preventiva) e di compattare questi due bienni in un unico forte momento di conflittualità che definisce di guerra civile.
Secondo Fabbri, a supportare questa considerazione sono la presenza del fenomeno squadrista e le sue pratiche violente, che segnano in maniera indelebile i difficili anni del primo dopoguerra italiano. In particolare, sono riconducibili a un contesto di conflitto civile: la scelta delle vittime in base al loro status sociale e al ruolo che queste ricoprivano, la decapitazione dei vertici politico-sindacali della parte avversa, la convinzione di dover estirpare un cancro anti-nazionale dal corpus sociale.
A confermare la legittimità dell’utilizzo di questa categoria, sta il fatto che tra i contemporanei fosse diffusa la percezione di trovarsi coinvolti in un conflitto di questo tipo (Mussolini, per esempio, definì l’assalto alla sede dell’Avanti «il primo atto della guerra civile17»).
L’impiego della categoria di guerra civile permette una lettura sostanzialmente nuova e originale, perché veicola l’idea che la guerra civile abbia avuto un impatto di lunga durata sulla società italiana: il conflitto scoppiato dopo l’8 settembre del ’43, all’annuncio dell’armistizio, fu una continuazione e una chiusura dei conti di un conflitto iniziato già nel 1919, quando i fascisti cercarono di creare una separazione tra nazionali e anti-nazionali.
La chiave di lettura proposta da Pavone permette di capire meglio quello che successe dopo il ’43, ad esempio i motivi dell’odio così radicale tra fascisti e antifascisti, e alcuni episodi di violenza del secondo dopoguerra.
Laura Bordoni